Viviamo in un mondo accelerato, iperconnesso e costantemente performativo. In questo contesto, la FOMO - la paura di restar tagliati fuori - non è solo un disagio personale, ma un vero e proprio sintomo culturale. Si manifesta nella necessità di esserci, di partecipare, di tenere sempre il passo.
Una specie di corsa contro il tempo che porta al bisogno - davvero fisico - di consultare lo smartphone più volte al giorno, anche mentre si sta facendo altro. Un'esigenza che alla lunga stanca e che genera anche un'altra ansia: quella di restar tagliati fuori dalle comunità, fisiche ma il più delle volte virtuali, che si creano attorno a un evento - i funerali di Papa Francesco sono stati l'ultimo esempio di ciò.
Fare la pace con la FOMO non significa però disconnettersi da tutto. Indica, piuttosto, capire che il mondo va avanti anche senza di noi, che ogni tanto è legittimo non esserci. E che la qualità della nostra vita non si misura sulla quantità di notifiche a cui rispondiamo, ma sulla capacità di scegliere consapevolmente cosa ci sta fare bene.
Diversi studi mostrano che chi sperimenta FOMO ha livelli più bassi di soddisfazione personale, meno autostima e più stress. La FOMO è associata a stanchezza cronica, peggioramento dell'umore e disturbi del sonno. Non è solo una questione emotiva: ha effetti concreti sul benessere psicologico e fisico, soprattutto fra i più giovani.
Me, watching people fomo into expensive, overrated art that shouldn’t be hyped, while I stick to collecting cheaper, criminally underrated work by artists who continue to go unnoticed…pic.twitter.com/GbIDRU9FCd
— ???????????????????? ???????????????? (@FidelEverywhere) May 3, 2025
La propria presenza online nasce e si sviluppa ormai in un contesto pieno di stimoli continui e allo stesso tempo contrastanti; c'è anche chi - cercando di stare al passo con quanto accade nella politica internazionale e non - soffre di una stanchezza mentale dovuta alla quantità di fonti presenti in rete e sui social media.
Ne sono tante, forse persino troppe, e fare una cernita è un'altra attività che richiede tempo ed energie mentali. La sola presenza visiva di notifiche da app o siti di notizie - come Google News o AOL - può generare disagio e ansia, anche se quelle notizie non vengono effettivamente lette. È la quantità di contenuti da gestire, più che il loro contenuto, a risultare opprimente.
Questo può essere considerato uno dei primi prezzi da pagare, perché l'alternativa è non esser considerati al passo coi tempi o aggiornati sugli ultimi trend. Un'etichetta, questa, che non va intesa necessariamente in senso frivolo.
I funerali di Papa Francesco alla fine di questo aprile hanno visto un imponente dispiegamento di mezzi non soltanto da parte dei media tradizionali, ma anche di persone lì presenti. I contenuti pubblicati sono stati poi rimasticati e riutilizzati da chi non ha seguito quell'evento e - in particolar modo su X - si è notato quanto per molti fosse importante far vedere che le esequie di Bergoglio sono state partecipate anche se solo tramite uno schermo.
La rete, percepita come archivio potenzialmente infinito, obbliga l'utente a un aggiornamento continuo della propria narrazione. La struttura stessa delle piattaforme sollecita reazioni immediate, spingendo chi vi partecipa a mantenere un ruolo sociale definito - quello di utente - e a proporre costantemente un'immagine riconoscibile e coerente.
Un ban da una piattaforma può diventare un colpo significativo per la vita sociale di una persona, con l'utente che rischia di perdere parte delle sue relazioni digitali. Le persone, per loro natura sociali, mettono in atto strategie complesse e investono molte energie per allineare ciò che desiderano essere con l'immagine pubblica che costruiscono online.
Quando emergono contraddizioni o incongruenze tra i contenuti condivisi (come reel, post e tweet) e il vissuto offline dell'utente, si genera uno scarto che può compromettere la credibilità percepita. Definire tout court l'identità online come una semplice "rappresentazione della rappresentazione" rischierebbe di essere riduttivo.
Non esiste un duplicato perfetto del sé: ogni performance sociale, anche quella digitale, è figlio di un equilibrio instabile tra ciò che il soggetto vuole comunicare e ciò che gli altri percepiscono. L'individuo è infatti al tempo stesso prodotto di un contesto sociale e soggetto attivo, dotato di intenzionalità riflessiva. Anche quando si sfiora l'egocentrismo, la presenza nei social apre la possibilità a molteplici palcoscenici espressivi, offrendo diversi modi di raccontarsi.
Nonostante questa pluralità, solo una narrazione coerente del sé ha forza di funzionare. L'identità digitale ha infatti caratteristiche di persistenza e visibilità che la rendono diversa da quella comunicata in situazioni offline: ciò che viene pubblicato resta accessibile e indicizzabile, replicabile e ricercabile nel tempo, tanto da poter modificare la percezione pubblica di un individuo.
La spettacolarizzazione dell'identità - tramite post, selfie e commenti - produce un paradosso: mentre si cerca di affermare un sé riconoscibile e forte, si rischia di renderlo frammentato o irriconoscibile per eccesso di esposizione. Il riconoscimento sociale, tuttavia, non dipende mai soltanto dall'autopercezione, ma si fonda sull'esistenza di un gruppo, di una comunità che convalidi e confermi quell'identità.
Il risultato è un flusso ininterrotto di momenti narrati e performati, comprensibili solo se fissati in forme visibili come selfie, tweet o post. Ma questi momenti restano fluidi e modificabili dagli altri, ma soprattutto da noi stessi. In uno spazio in cui la narrazione è sempre rinegoziabile, il ruolo dell'individuo cambia continuamente, adattandosi alle logiche implicite della rete e al suo potere di moltiplicare i contesti espressivi.
La paura di "perdere il treno" ha ormai contagiato anche altri ambiti: si compra una cripto per non rischiare di mancare l'occasione della vita, si resta svegli per sbloccare l'ultimo contenuto in un videogioco, si partecipa agli eventi solo perché "ci saranno tutti". Anche il marketing ha capito il potere della FOMO: molte campagne giocano proprio su questo meccanismo per spingere ad agire e ad acquistare l'ultimo prodotto di una serie di altri prodotti.
Oggi è il conclave, ma i funerali di Papa Francesco - per quanto possa sembrare irrispettoso - sembrano esser diventati l'ennesimo anello di una catena di contenuti impossibile da spezzare. La stessa presenza di fedeli e non a Roma è un elemento che arricchisce non solo la veridicità della narrazione del singolo, ma anche di chi è tenuto a raccontare ciò che sta succedendo, come i giornalisti.
La consapevolezza della presenza di un pubblico, anche se solo potenziale, introduce infine un ulteriore elemento di ambivalenza: le nostre esibizioni possono assumere forme diverse a seconda di chi ci sta osservando e degli obiettivi che le persone vogliono raggiungere in quel momento.
La FOMO come sintomo culturale - Viviamo in un flusso continuo di stimoli e contenuti che spinge le persone a sentirsi costantemente obbligate a partecipare, pubblicare e aggiornarsi, pena l’esclusione sociale.
Identità digitale e iper-esposizione - Sui social costruiamo un'immagine pubblica che deve restare coerente e riconoscibile. Ma l’eccesso di presenza rischia di frammentare la percezione di sé, rendendola instabile e soggetta a giudizi esterni.
Spettacolarizzazione della vita - Ogni evento, anche drammatico o sacro come i funerali di Papa Francesco, viene inglobato nella narrazione online. La necessità di "esserci" si trasforma in performance continua, influenzata dal pubblico e dalla logica delle piattaforme.