“L’erede” di Xavier Legrand è un film che si regge su una tensione crescente, un viaggio psicologico ed esistenziale attraverso i meandri della memoria, della famiglia e della colpa.
Il protagonista, Ellias Barnès, è un giovane stilista francese che, durante un momento cruciale della sua carriera nell’haute couture, viene improvvisamente richiamato alle sue origini da una tragica notizia: la morte del padre.
Dietro al freddo annuncio, si nasconde una realtà molto più complessa, che costringe Ellias a fare i conti con il passato che aveva tentato di lasciarsi alle spalle.
Dopo aver cambiato nome (dal suo natale Sebastian) per distanziarsi da un genitore odiato, Ellias è costretto a tornare nella casa paterna in Québec, una dimora carica di ombre e segreti. Qui la chiarezza sui rapporti familiari lascia spazio a un’atmosfera di angoscia palpabile. Il rientro non è solo un dovere formale, ma una vera e propria discesa negli abissi della propria storia, tra domande irrisolte e ricordi repressi.
“L’erede” trova la sua forza nell’ambiguità, nella capacità di evocare il peso dell’eredità e la difficoltà di affrancarsi dai propri fantasmi. Il film si chiude lasciando addosso la sensazione che davvero, come nella tragedia, il destino sia ineluttabile e la fuga impossibile.
La casa del padre non è solo lo scenario di ricordi, ma il vero fulcro del mistero e dell’inquietudine del film. Ogni stanza, ogni dettaglio architettonico sembra suggerire una presenza sinistra, un passato pronto a riaffiorare.
Per Ellias, la gestione degli affari del padre si mescola a piccoli segnali di allarme: dettagli fuori posto, reazioni morbose degli estranei e, soprattutto, quella sensazione soffocante di non conoscere davvero l’uomo che lo ha generato. In questo ambiente sospeso, la tensione cresce fino a trasformarsi in paura vera, quando Ellias scopre un terribile segreto legato al genitore.
Nonostante la trama del film preservi la sorpresa fino alla fine — e molte recensioni scelgano di non svelare il dettaglio chiave — è chiaro che si tratta di una verità sconvolgente, capace di ridefinire completamente la percezione del protagonista sul padre e su se stesso.
È su questo snodo che il film riflette sul tema centrale: il male, la violenza e l’oscurità sono caratteristiche che si possono ereditare? Si può sfuggire veramente ai traumi e ai modelli imposti dall’ambiente familiare?
Il finale di “L’erede” è costruito come una tragedia greca contemporanea e abbatte ogni barriera tra realtà e simbolo.
Dopo aver affrontato la parte più buia della propria storia, Ellias viene letteralmente schiacciato dal peso dell’eredità: sul suo tablet appare la copertina di una rivista che annuncia il suo nuovo status di “successeur” (erede), utilizzando il solo cognome del padre e annullando così la sua scelta di cambiare identità.
Il vecchio nome di battesimo, Sebastian, riaffiora come un segno di un destino inevitabile: la sovrapposizione con la figura paterna è completa e l’eredità, morale e psicologica prima che materiale, si è compiuta.
Il colpo di scena finale, sconcertante ma coerente con la costruzione narrativa, porta il protagonista e lo spettatore a confrontarsi con la domanda più inquietante: siamo destinati a diventare come i nostri padri oppure possiamo scrivere il nostro destino? La risposta rimane sospesa, in un epilogo volutamente aperto che non concede alcuna facile consolazione.
Legrand alterna atmosfere da thriller, horror psicologico e dramma familiare, scegliendo una regia asciutta che amplifica il senso di claustrofobia e smarrimento del protagonista.
Non c’è via di fuga: sia per Ellias che per lo spettatore. Ogni scelta nel film contribuisce a creare una spirale di tensione che culmina in un finale devastante, immune da catarsi definitiva. Le domande poste restano senza risposta, e il male, ereditato o meno, continua a vivere nelle ombre lasciate dalla famiglia.