Tutto o niente. Il sistema pensionistico rischia di subire un cambio drastico: potrebbe sfumare del tutto l’uscita anticipata a 62 anni con Quota 103. Il nuovo orientamento porterebbe le uscite pensionistiche a 64 anni di età, con l’obiettivo di garantire un maggiore equilibrio per le casse pubbliche. Il dibattito sulle pensioni è tornato acceso in vista della Legge di Bilancio 2026.
Ad oggi, la Legge 29 dicembre 2022, n. 197 (art. 1, co. 283), che ha istituito l’uscita anticipata a 62 anni con 41 anni di versamenti contributivi (Quota 103), rischia di essere abbandonata. Una decisione che nasce dai dati registrati nel 2024: su 15.000 domande per Quota 103, solo circa 1.100 pensioni sono state effettivamente liquidate.
Ed è proprio questo il principale motivo che spingerebbe il Governo Meloni a non prorogare Quota 103 oltre il 2025. Le attuali indicazioni sull’uscita anticipata flessibile si orientano verso i 64 anni di età.
Le cattive notizie circolano in fretta e, prima ancora di arrivare alla domanda “Con quanti contributi si andrà in pensione dal 2026?”, emerge una nuova certezza: dopo il 2026 l’età di vecchiaia salirà di 3 mesi, secondo l’adeguamento ISTAT previsto per il biennio 2027-2028. Tuttavia, non si esclude un intervento legislativo per congelare questo incremento. Vediamo ora come si potrà andare in pensione nel 2026.
Se Quota 103 venisse dismessa, resterebbe attiva solo la pensione anticipata ordinaria, che non prevede un'età anagrafica minima, ma si basa esclusivamente sui contributi:
Dopo il 2026, salvo modifiche, si applicherà l’adeguamento ISTAT.
Partendo da questi due presupposti, una certezza rimane: la pensione anticipata a 64 anni, ma solo per chi ha almeno 25 anni di contributi e accetta un trattamento calcolato interamente con il sistema contributivo. Questo penalizza i lavoratori che hanno un montante rilevante nel sistema retributivo o misto.
Nella sfera previdenziale nulla sarà più come prima, altro che legge Fornero. Va detto che la pensione anticipata a 64 anni è già attiva, ma riservata ai lavoratori rientrano nel contributivo puro, ovvero coloro che hanno iniziato a versare contributi dopo il 1995.
A questo si aggiunge un assegno non superiore a tre volte il trattamento minimo, ovvero circa 1.617 euro al mese nel 2025. Ma non è detto che la pensione a 64 anni venga estesa a tutti i lavoratori.
Negli ultimi mesi sono emerse varie proposte, tra cui la Quota 41 flessibile, che prevede l’uscita a 62 anni con 41 anni di contributi, ma con condizioni differenti rispetto all’attuale Quota 103.
Non si tratterebbe di un ampliamento, ma piuttosto di un meccanismo con nuove penalizzazioni sull’assegno rispetto alla pensione ordinaria.
Un’altra ipotesi è l’utilizzo del TFR accantonato presso l’INPS come “ponte” di anticipo per integrare il trattamento pensionistico, permettendo ai lavoratori di maturare il requisito minimo per la pensione.
Una soluzione penalizzante per i lavoratori con carriere discontinue e pensioni contenute. Difatti, queste nuove regole, se adottate, metterebbero in crisi non poche persone escluse dal sistema, costrette a lavorare fino al perfezionamento del diritto alla pensione di vecchiaia: ovvero 67 anni e 3 mesi, o 71 anni e 3 mesi (con adeguamento ISTAT dal 2027).
Effettivamente si tratta di ipotesi ancora al vaglio del Governo. Il legislatore si trova oggi di fronte a decisioni che cambieranno l’uscita dal lavoro nel prossimo biennio, per non dire nel lungo periodo. Ed è viva la discussione sulle nuove regole previdenziali, soprattutto da parte di chi si trova a un passo dal pensionamento e rischia di dover accantonare i propri progetti per via dell’introduzione di nuovi vincoli orientati alla stabilità dei conti pubblici.
Sì, ma non è tutto. La pensione anticipata a 64 anni, così come pensata, andrebbe a favore dei lavoratori con carriere stabili, solide e interamente contributive.
Non è trascurabile il fatto che il legislatore richieda 25 anni di contributi e un assegno di almeno tre volte il trattamento minimo vitale. In pratica, anche con 64 anni e 25 anni di contributi, senza raggiungere l’importo soglia, l’INPS non rilascia il trattamento, e l’unica opzione è quella di lavorare fino a 67 o 71 anni, senza adeguamento.
Dal 2030, le condizioni previdenziali tenderanno a diventare più selettive, con un rialzo del requisito contributivo a 30 anni e dell’importo minimo a 3,2 volte il trattamento minimo vitale.