Lo sgombero del Leoncavallo di Milano, avvenuto a sorpresa dopo oltre trent’anni di occupazione, ha riportato in primo piano il tema dei centri sociali in Italia, un fenomeno che attraversa generazioni, città e appartenenze politiche. Il “Leonka”, come lo chiamano i suoi frequentatori, non era solo un luogo di ritrovo per militanti e artisti, ma un simbolo della storia antagonista milanese e nazionale: concerti, assemblee, iniziative culturali e battaglie sociali hanno animato l’ex cartiera di via Watteau dal 1994 fino al blitz che lo ha restituito ai proprietari. La sua chiusura segna la fine di un’era, ma solleva anche domande più ampie.
Il dibattito che si è acceso non riguarda soltanto la legalità delle occupazioni, ma la funzione che questi spazi hanno assunto all’interno delle comunità. Secondo le stime, sono più di duecento i centri sociali ancora attivi in Italia: luoghi nati per colmare vuoti urbani e sociali, per dare voce a generazioni che non trovavano spazio nelle istituzioni tradizionali, ma anche realtà spesso accusate di alimentare scontri e conflitti. La vicenda milanese ha fatto emergere un cortocircuito politico: mentre lo Stato interviene con fermezza sugli spazi storicamente legati alla sinistra, rimangono intatti quelli della destra radicale, come CasaPound a Roma, diventando terreno di accese polemiche e accuse di doppiopesismo.
In questo scenario, i centri sociali appaiono come specchio delle contraddizioni italiane: luoghi di cultura e resistenza per alcuni, enclave di illegalità per altri. Di certo, la loro storia racconta molto delle trasformazioni politiche e sociali degli ultimi cinquant’anni, mostrando come le città siano diventate terreno di scontro, ma anche laboratorio di esperienze comunitarie difficili da ignorare.
Nati negli anni Settanta, i centri sociali hanno rappresentato la risposta spontanea di generazioni che cercavano spazi di espressione fuori dai canali istituzionali. Attraverso l’occupazione di stabili abbandonati, questi gruppi hanno dato vita a luoghi che, nel tempo, si sono trasformati in presidi culturali e sociali. Realtà come il Forte Prenestino a Roma, l’Askatasuna a Torino o il Làbas a Bologna hanno ospitato concerti, dibattiti, laboratori, ma anche iniziative di solidarietà, diventando punti di riferimento nei quartieri in cui si sono radicati.
Il loro ruolo non è stato solo politico: in molte città hanno rappresentato alternative a spazi culturali inesistenti o insufficienti, soprattutto per i giovani. Eppure, la loro natura “illegale” li ha resi costantemente vulnerabili agli sgomberi. Alcune amministrazioni hanno tentato la via del dialogo, arrivando persino a riconoscere il valore di certi spazi, come avvenuto a Torino con il percorso di co-gestione dell’Askatasuna. Ma altrove, la linea dura ha prevalso. Il Leoncavallo stesso era sopravvissuto a oltre cento tentativi di sgombero, fino all’intervento di questi giorni che ha segnato una cesura definitiva.
La chiusura del Leoncavallo ha sollevato una questione che da anni alimenta scontri politici: la disparità di trattamento con CasaPound. A Roma, l’edificio di via Napoleone III, occupato dal 2003, continua a essere la sede del movimento neofascista, nonostante i provvedimenti giudiziari e le indagini per occupazione abusiva. Per molti, è la prova che la legge non viene applicata in modo uniforme: i centri sociali di sinistra vengono colpiti, mentre quelli di destra restano al riparo.
Le opposizioni parlano apertamente di ipocrisia. “Nessuna zona franca deve esistere”, ha detto la premier Giorgia Meloni, commentando lo sgombero milanese. Ma la stessa frase viene rivoltata contro il governo, accusato di chiudere un occhio quando l’occupazione porta una bandiera tricolore sul balcone. Lo stesso ministro della Cultura, Alessandro Giuli, ha dichiarato che CasaPound non sarebbe a rischio se “rispetta i criteri di legalità”, una posizione che molti giudicano ambigua. È proprio questa doppia misura che trasforma ogni sgombero in un caso politico, rendendo difficile separare il piano della legalità da quello della propaganda.
Nel pomeriggio di oggi, il ministro degli Interni Piantedosi ha chiarito che prima o poi lo stesso destino che è toccato al Leoncavallo toccherà a CasaPound.
Il fenomeno, però, non riguarda solo la sinistra. Negli anni Novanta anche la destra radicale ha cominciato a occupare spazi, creando luoghi di aggregazione propri. CasaPound ne è l’esempio più noto, ma nel corso del tempo si sono affermate altre esperienze come CasaMontag, Area 19 e Foro 753 a Roma, oppure strutture più periferiche come Casa d’Italia Colleverde. Questi spazi hanno mescolato attività sociali e identitarie, sviluppando un modello diverso: da un lato iniziative culturali e sportive, dall’altro progetti abitativi destinati a famiglie italiane in difficoltà.
La loro sopravvivenza dimostra che il bisogno di comunità e di spazi autogestiti non appartiene a una sola area politica. Tuttavia, la presenza di un’ideologia neofascista dichiarata li rende fortemente divisivi. Per alcuni rappresentano laboratori di militanza e solidarietà, per altri sono centri che legittimano nostalgie pericolose. In ogni caso, la loro esistenza ricorda che il tema dei centri sociali non può essere ridotto a una questione di ordine pubblico: è il riflesso di tensioni storiche e culturali che attraversano il Paese. Lo sgombero del Leoncavallo non chiude quindi una stagione, ma apre una nuova fase di confronto.