Nell’era dei nuovi media, i conflitti non si combattono soltanto sul campo di battaglia ma anche nello spazio digitale. I social network sono difatti diventati strumenti decisivi per costruire narrazioni, orientare l’opinione pubblica e persino legittimare strategie militari.
Il caso recente degli influencer inviati a Gaza da Israele ne è un esempio lampante: attraverso video e contenuti virali su TikTok, Instagram e YouTube, questi creator hanno mostrato immagini di mercati riforniti e scaffali pieni, con l’obiettivo di contrastare le accuse di carestia e crisi umanitaria diffuse da fonti palestinesi e organismi internazionali. Una vera e propria arma di propaganda che ci fa interrogare sulle implicazioni etiche e comunicative di una guerra che si gioca sempre più a colpi di immagini e hashtag.
L’operazione israeliana mette in luce un fenomeno ormai evidente: i social non sono più soltanto strumenti di informazione, ma anche di propaganda. Secondo la teoria dei nuovi media, essi combinano la forza della comunicazione di massa con la rapidità e l’interattività della comunicazione personale. In altre parole, un post sui social media non solo raggiunge milioni di persone, ma lo fa in modo diretto, senza il filtro critico delle redazioni giornalistiche, in questo modo un video, ad esempio, non “mostra” semplicemente la realtà ma la costruisce, attribuendo significato e orientando la percezione pubblica.
La semiotica dei media ci ricorda che i segni — immagini, video, parole — non descrivono la realtà in modo neutro ma ogni contenuto è un atto di costruzione simbolica. Mostrare un supermercato pieno a Gaza equivale a suggerire che la narrazione della carestia sia falsa o esagerata. Allo stesso tempo, le immagini di bambini denutriti rilanciate da ONG e giornalisti consolidano l’opposto. La battaglia diventa quindi una lotta tra rappresentazioni, dove ciò che conta non è solo “cosa accade”, ma “come viene raccontato”.
Gli influencer sono ormai i nuovi ambasciatori digitali. Non hanno alle spalle un percorso giornalistico né un ruolo istituzionale, eppure possiedono qualcosa di altrettanto potente: la fiducia di milioni di follower. È quel rapporto diretto, costruito giorno dopo giorno tra stories e dirette, a renderli credibili agli occhi del pubblico. Ed è proprio su questa credibilità che oggi fanno leva governi e attori politici, trasformandoli in strumenti di soft power.
Questa dinamica apre un nodo cruciale: quello etico. Se un tempo la televisione imponeva filtri e mediazioni giornalistiche, oggi i social hanno cancellato quasi ogni barriera, riversando online un flusso continuo di contenuti rapidi, emotivi e difficili da verificare. Gli algoritmi privilegiano ciò che genera reazioni forti, le echo chambers intrappolano gli utenti in bolle di conferme, e così la verità finisce per perdersi tra versioni contrapposte. Viene allora da chiedersi: siamo di fronte a testimonianze autentiche o a prodotti costruiti a tavolino? Cronaca o propaganda?
Il caso degli influencer a Gaza ci dimostra che la guerra del XXI secolo non si gioca solo con le armi, ma anche con gli smartphone. La battaglia per la verità si combatte a colpi di immagini, hashtag e narrazioni contrapposte.
In questo scenario, il compito della comunicazione non è solo osservare i nuovi media come strumenti di diffusione, ma interrogarne l’etica, la responsabilità e il potere. Perché, come ricorda la teoria dei linguaggi e dei nuovi media, ogni contenuto online non è un semplice riflesso della realtà: è una parte attiva della realtà stessa.
A cura di Chiara Bollo