Spoiler: Non è goliardia, non è “solo internet”. È una forma insidiosa di violenza, radicata nella cultura, amplificata dal digitale.
Basta leggere certi titoli per capire subito che parola “rispetto” non c’entra niente. • Phica: una storpiatura volgare e crudele, che svilisce già nel nome il femminile e che riduce la donna al suo organo genitale. • Mia Moglie: una denominazione che disumanizza il legame, trasformandolo in un oggetto, proprietà da esibire. Non è ironia: è violenza.
• Phica.eu: operativo dal 2005 è stato chiuso dopo settimane di indignazione e iniziative legali. È verosimile che gli iscritti fossero dai 700.000 ai 900.000. Nel solo mese di luglio 2025 gli accessi al forum sono stati più di un milione e mezzo. Venivano condivise foto di donne ignare che la loro immagine fosse offerta a decine di migliaia di occhi indiscreti e commenti offensivi. Spesso erano semplici passanti fotografate per strada sia per intero che nei dettagli corporei. Altre volte erano parenti, mogli, cognate, vicine di casa, colleghe. Altre volte erano personaggi pubblici le cui foto venivano rubate da web, zoomate e modificate con l’intelligenza artificiale.
• Mia Moglie: gruppo Facebook chuso da Meta, contava oltre 32.000 membri. I partecipanti condividevano soprattutto foto delle proprie mogli o compagne, molto spesso all’insaputa delle stesse, lasciando spazio ai commenti di tutti gli altri utenti il cui interesse era primariamente di tipo sessuale.
Anonimato, appartenenza al gruppo, competizione sono il mix perfetto per annientare l’empatia. In questi forum gli utenti si misurano tra loro: chi porta più foto, chi offre “materiale” nuovo, chi osa di più. Non importa che si tratti di partner, ex, parenti o perfette sconosciute. La logica è quella del branco. Da soli, forse, molti non avrebbero il coraggio di compiere certi gesti, e senza pubblico non risulterebbe altrettanto “divertente” Ma dentro l’anonimato digitale, le barriere morali si abbassano. È un fenomeno chiamato deindividuazione: nel gruppo l’individuo perde identità e responsabilità personale, si sente legittimato a fare ciò che non farebbe mai in solitudine.
Sia chiaro, non si tratta di una giustificazione né tantomeno di una scusante. Così, tra risate, battute sessiste e commenti volgari, la violenza diventa normalità. L’umiliazione collettiva si trasforma in rito, rafforza il legame maschile e consolida l’idea che l’unico valore della donna sia quello del suo corpo. Le donne diventano “pezzi”, “materiale”, “parti del corpo da catalogare”. Non persone. Questo invece è il fenomeno dell’oggettificazione ed avviene quando una donna viene privata della sua umanità, resa oggetto di cui disporre liberamente e senza alcuno scrupolo di coscienza.
Così, rafforzati dal legame del gruppo e dalla sua approvazione, e ridotta la figura femminile ad oggetto, passa la paura, si libera ogni pulsione e il Super Io (il nostro moralizzatore interno) è zittito.
Le conseguenze sono devastanti. Chi scopre di essere finita in uno di questi gruppi racconta spesso un senso di perdita di controllo assoluto: la propria immagine, il proprio corpo, non appartengono più a sé stesse, ma a una folla anonima che osserva, commenta, usa, abusa, deride.
Il risultato è un terremoto interiore: vergogna, paura di essere riconosciute, isolamento sociale. Le conseguenze sono quelle tipiche di un trauma: ansia costante, senso di vulnerabilità, perdita di autostima. A questo si aggiunge la sensazione devastante di essere state tradite due volte: da chi ha condiviso la foto e da una società che minimizza o addirittura colpevolizza la vittima. La violenza digitale, come quella fisica, lascia cicatrici profonde. Solo che qui il dolore non ha lividi da mostrare: rimane invisibile, e per questo ancora più difficile da riconoscere e denunciare.
Illudersi che Phica o Mia Moglie siano fenomeni isolati sarebbe un errore. L’Italia non è un’eccezione: la violenza digitale che trasforma le donne in “materiale” attraversa l’Europa intera.
In Spagna, ad esempio, alcuni gruppi Telegram di giovani universitari condividevano foto di studentesse etichettandole come “novias de todos”, “le fidanzate di tutti”. Una definizione che dice tutto: corpi femminili sottratti all’individualità per diventare proprietà collettiva.
In Francia, il caso del Ligue du LOL ha mostrato come la cultura dell’umiliazione non appartenga solo a spazi marginali della rete. Persino giornalisti, professionisti della comunicazione e opinion leader hanno partecipato a campagne di scherno e di condivisione sessista. Senza dimenticare il caso di Gisèle Pelicot offerta online dal marito a chi volesse approfittarne.
In Germania, invece, la polizia ha più volte chiuso forum interamente dedicati alla diffusione di foto femminili rubate. Ma i siti riemergono altrove, su server esteri, con lo stesso copione: anonimato, volgarità e la trasformazione delle donne in oggetti da scambiare.
Contesti diversi ma un’unica dinamica. Il messaggio non cambia: il corpo delle donne è considerato pubblico, disponibile, appropriabile. La chiusura di Phica, la cancellazione di Mia Moglie mostrano solo la punta dell’iceberg. Quel che resta sotto è una cultura che disumanizza e violenta le donne come se fosse normale. Dietro ogni foto rubata, non c’è un file. C’è una persona che perde qualcosa di irrimediabile: il diritto al proprio corpo, alla propria immagine, alla propria integrità, alla propria umanità. È tempo di assumere consapevolezza, reagire, denunciare.
A cura di Simona Ledda