Via libera all'adeguamento degli stipendi dei giudici della Consulta. Il tutto grazie a una sentenza della Consulta stessa.
A luglio scorso, infatti, i giudici costituzionali hanno dichiarato incostituzionale il tetto retributivo di 240mila euro lordi annui per i dipendenti della Pubblica amministrazione, introdotto nel 2014 da un decreto del Governo Renzi.
Secondo la Corte, tale limite compromette l’indipendenza economica della magistratura e delle sue garanzie. La sentenza della Corte non ha infatti messo in discussione in assoluto l’istituto del tetto retributivo per i dipendenti pubblici, ma ha contestato l’applicazione rigida di questo limite ai giudici costituzionali. Vediamo perché.
Dal 2011, in base al decreto-legge n. 201, il limite retributivo per i giudici costituzionali era stabilito facendo riferimento allo stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Il trattamento economico dei giudici costituzionali veniva così fissato a un importo superiore del 50% rispetto a quello del Primo Presidente.
La successiva legge di conversione del decreto-legge n. 66 del 2014 aveva però sostituito questo parametro con un tetto fisso di 240 mila euro annui lordi, determinando di fatto una decurtazione significativa dei compensi delle toghe.
Con la sentenza n. 135 del 28 luglio 2025, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di tale soglia, stabilendo che il limite retributivo dei giudici dovrà essere nuovamente parametrato al trattamento economico complessivo spettante al Primo Presidente della Corte di Cassazione.
Detto, fatto. Come riportato dal Fatto Quotidiano, il primo effetto della rimozione del limite è stato l’aumento dello stipendio del Primo Presidente della Corte di Cassazione, che è passato dai 255.127 euro annui lordi (ovvero il tetto di 240 mila più rivalutazioni) a 311.658 euro annui lordi.
Di conseguenza, anche gli stipendi degli altri giudici costituzionali si sono immediatamente adeguati, raggiungendo 467.487 euro lordi annui.
Una differenza notevole, che ha riportato i compensi dei magistrati ai livelli precedenti al tetto del 2014, interpretato nella sentenza come una misura temporanea dovuta alla straordinarietà degli anni di crisi economica, ormai non più valida.
L’adeguamento degli stipendi dei giudici della Corte costituzionale, di circa il 20% netto, arriva pochi giorni dopo un analogo blitz dell’INPS. Anche in quel caso, proprio in seguito alla sentenza del 28 luglio scorso, i dirigenti avevano tentato di riadeguare le loro retribuzioni per effetto della sentenza.
L’operazione non è però piaciuta al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, secondo il quale le amministrazioni non possono adeguare gli stipendi autonomamente: serve un passaggio concordato con il MEF.
Il timore è evidente: il rischio di una fuga in avanti da parte di tutti gli uffici pubblici, con un danno non solo per le casse dello Stato, ma anche per l’immagine del Governo, nel pieno del cantiere della manovra finanziaria e le sue difficoltà.
L’immagine dei dirigenti della PA che vedono, in un batter d’occhio, gonfiarsi nuovamente le loro retribuzioni non è certo gradita a nessuno. Non a caso, l’idea è stata bocciata anche dal ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo.
Lo stop dei ministri all’INPS, tuttavia, non può essere replicato con la Corte costituzionale, che gode di piena autonomia.
Certo è che l’immagine delle toghe e dei loro stipendi, e la loro lotta per “l’indipendenza della magistratura” – lecita e legittima – rischia di diventare un boomerang comunicativo nella battaglia referendaria del prossimo anno, quella sulla riforma della giustizia.
Se le alte retribuzioni dei magistrati servono a compensare l’elevata responsabilità del loro ruolo, tutelando l’indipendenza contro pressioni esterne o conflitti di interesse, è evidente che l’adeguamento stia suscitando critiche, soprattutto in un contesto economico come quello attuale, che vede in difficoltà molti italiani.