Sono tornati quando Roma era già immersa nel silenzio della notte, accolti da cori, abbracci e lacrime. Diciotto attivisti italiani della Global Sumud Flotilla hanno messo piede a Fiumicino poco dopo la mezzanotte, dopo giorni di detenzione in Israele e un volo di ritorno da Istanbul.
Ad attenderli, più di duecento persone tra familiari, colleghi e sostenitori, con bandiere palestinesi e striscioni che parlavano di libertà e resistenza.
In quell’aeroporto, per una notte, la stanchezza si è mischiata alla determinazione, e la paura ha lasciato spazio a un sentimento collettivo di solidarietà.
Le loro voci, spezzate ma decise, hanno raccontato una realtà che molti preferiscono non guardare. Nelle ore trascorse nelle carceri israeliane, gli attivisti dicono di aver compreso sulla propria pelle la condizione quotidiana del popolo palestinese.
Privazioni, insulti, violenze psicologiche: esperienze che hanno trasformato un’azione di pace in una testimonianza diretta di ingiustizia. Tra loro c’erano giornalisti, sindacalisti, cittadini comuni, uniti dallo stesso obiettivo: portare aiuti umanitari a Gaza e rompere un blocco che dura da oltre sedici anni.
Ma non tutti sono tornati. Altri quindici italiani restano trattenuti in Israele, avendo rifiutato di firmare il documento di espulsione volontaria.
E mentre i primi raccontano le celle sovraffollate e la mancanza d’acqua, la mente di molti resta a chi è ancora là. È il pensiero che accomuna le parole di tutti: nonostante la paura, nonostante la stanchezza, la lotta non si ferma.
Le parole di Paolo De Montis, sindacalista della CUB Trasporti, riassumono un dolore collettivo. “Siamo esausti. Lì abbiamo capito cosa subiscono i palestinesi.”
Racconta celle troppo piccole per il numero di persone, donne stipate in quindici dentro quattro metri, uomini in dieci con un solo rotolo di carta igienica e nessuna acqua corrente. Il cibo, scarso, consumato a terra.
Le sue scarpe, fornite dai turchi dopo la liberazione, sembrano un simbolo di quel viaggio attraverso la privazione e la dignità calpestata.
Il racconto di De Montis è scandito da rabbia e incredulità. Non solo per le condizioni materiali, ma per il clima di odio percepito fin dal primo contatto.
“Siamo stati accolti con aggressività, come se fossimo pericolosi. Noi che eravamo lì in pace.” Le sue parole si intrecciano con quelle di altri compagni, tutti concordi: il carcere non è stato solo una prigionia fisica, ma una lezione durissima sulla realtà che si voleva denunciare.
Cesare Tofani, con la kefiah ancora al collo, parla di angherie e umiliazioni. “Ci hanno trattato come terroristi,” dice, con la voce ancora tesa.
Durante l’intercettazione in mare, spiega, la situazione sembrava controllata: “Nessuna violenza all’inizio, ci avevano detto di collaborare.”
Ma tutto è cambiato al passaggio di consegne alla polizia israeliana. Lì, racconta, sono iniziati i soprusi, la fame, la sete, le ore senza sonno.
Tofani si dice soprattutto preoccupato per i compagni rimasti in Israele, quelli che non hanno accettato il rimpatrio. “Dovranno affrontare il processo e vivere ancora quel trattamento.”
La solidarietà, per chi ha condiviso la stessa prigionia, diventa una forma di resistenza. “Siamo stati sequestrati da una banda armata in acque internazionali,” aggiunge uno degli attivisti, sintetizzando in una frase la sensazione di essere vittime di un’azione che ha superato ogni limite.
Il giornalista Saverio Tommasi racconta di medicine negate, di un ottantaseienne privato della bomboletta per l’asma, di un’acqua dal sapore rancido. “Un medico non è mai arrivato, nonostante le richieste.”
Le sue parole si mescolano a quelle di altri, che parlano di violenze psicologiche, di risate e insulti, di effetti personali sottratti. “Mi avevano tolto le fedi,” dice, “le ho riavute solo dopo una discussione con un giudice.”
Eppure, tra le crepe di quei racconti, si intravede una forza che non si spegne. “Siamo provati ma stiamo bene,” dice Michele Saponara, gli occhi lucidi. “È stata dura, ma per i palestinesi lo è ogni giorno.”
La priorità, aggiunge, è non fermarsi: “Bisogna continuare a lottare, riportare a casa chi è ancora lì.”
A Fiumicino, tra le bandiere sventolate e gli abbracci infiniti, non si parlava solo di un ritorno. Si parlava di una consapevolezza nuova, dolorosa ma necessaria: quella di chi ha visto, toccato e ora non può più tacere. Perché, come recitava lo striscione all’aeroporto, “non si può fermare il vento.”