Il film cileno di Netflix, basato sul romanzo di Alia Trabucco, si conclude con un atto di disperazione e una perdita insopportabile.
"Limpia" (che significa "Pulita") non è un film facile da guardare. È un dramma psicologico che si insinua sotto la pelle, che costruisce lentamente una tensione che culmina in una tragedia tanto inevitabile quanto straziante.
Racconta la storia di Estela, una collaboratrice domestica la cui intera esistenza è dedicata alla cura della casa e, soprattutto, della piccola Julia, la figlia di sei anni dei suoi datori di lavoro.
In un'estate soffocante, tra le mura di una casa benestante ma emotivamente sterile, le due costruiscono un legame simbiotico, un mondo segreto che funge da scudo contro la solitudine.
Ma il finale del film demolisce brutalmente questo rifugio, lasciando lo spettatore a interrogarsi non solo su cosa sia successo, ma sul perché fosse destinato a succedere.
Per comprendere la catastrofe finale, è essenziale capire la natura del rapporto tra Estela e Julia. Non si tratta di un semplice affetto tra una tata e una bambina, ma di una vera e propria dipendenza emotiva nata dal vuoto lasciato dai genitori di Julia.
Il padre, un medico assorbito dal lavoro, e la madre, una gallerista concentrata sulla sua carriera, sono presenze fugaci e distratte. La loro genitorialità si esprime attraverso direttive e beni materiali, ma manca di qualsiasi reale connessione e affetto.
L'esempio più lampante è la piscina. Il padre, nel tentativo di insegnare a nuotare a Julia, la getta in acqua, traumatizzandola. È Estela, con pazienza e affetto, a trasformare quell'acqua da fonte di terrore a spazio di gioco e fiducia.
In questo microcosmo, Estela non è solo una badante; diventa la figura materna surrogata, l'unica in grado di vedere, ascoltare e comprendere la bambina. Julia, a sua volta, diventa il centro dell'universo di Estela, riempiendo il vuoto di una vita personale quasi inesistente.
Parallelamente alla costruzione di questo legame, il film mette in luce la condizione di invisibilità e sfruttamento di Estela.
La sua vita è confinata tra le mura della casa. I suoi giorni liberi sono precari, spesso revocati per le "necessità" della famiglia. E anche la sua relazione nascente con Carlos, un benzinaio, è relegata a incontri fugaci e clandestini.
Il punto di rottura inizia a delinearsi quando la madre di Estela si ammala gravemente. I suoi datori di lavoro, pur con una cortesia superficiale, minimizzano la situazione e la convincono a posticipare il viaggio per assisterla.
Quando la madre di Estela muore, lei è lontana, intrappolata nel suo ruolo. Il suo dolore è immenso, ma deve essere contenuto, vissuto in silenzio nella sua stanza, perché la vita della famiglia per cui lavora non si deve fermare. Questa perdita segna l'inizio del crollo emotivo di Estela, un lutto che non le è permesso elaborare.
È in questo clima di dolore represso che entra in scena Dadú, un cane randagio che Estela e Carlos trovano e che Estela porta segretamente in casa. Dadú non è solo un animale; è un simbolo.
Rappresenta un pezzo del mondo esterno, un affetto che appartiene solo a Estela, un elemento di vita "sporca" e autentica che si intrufola nella sterile perfezione della casa.
Ma questo mondo non può tollerare intrusioni. L'incidente in cui Dadú morde Julia, seppur lievemente, incrina la fiducia e fa emergere la latente frattura di classe.
Estela non è più la tata devota, ma una dipendente che ha commesso un errore, mettendo a rischio la figlia dei padroni. La tragedia si compie quando il cane rimane folgorato dalla nuova recinzione elettrificata, installata dal padre di Julia per proteggere la proprietà. La barriera fisica creata per tenere fuori il "pericolo" esterno finisce per distruggere l'unica cosa che portava un po' di conforto a Estela.
La morte di Dadú è la goccia che fa traboccare il vaso. Per Estela, è la perdita finale: prima sua madre, ora il suo cane. La vista dell'animale che soffre la spinge oltre il limite. L'atto di afferrare la pistola del suo capo e sparare non è un gesto mirato, ma un'esplosione di rabbia e dolore repressi, un urlo primordiale contro un mondo che le ha tolto tutto.
Subito dopo, Estela se ne va. La sua partenza non è un abbandono crudele, ma un atto disperato di autoconservazione. Non può più esistere in quella casa che è diventata una prigione e un cimitero dei suoi affetti.
È qui che si consuma la tragedia finale. Julia annega nella piscina. La sua morte non è un semplice incidente. È la conseguenza diretta e inevitabile di tutto ciò che è accaduto.
Con Estela andata via, Julia si ritrova di nuovo completamente sola nel vuoto emotivo lasciato dai suoi genitori. La piscina, che con Estela era diventata un luogo sicuro, ritorna a essere la fonte di pericolo originale.
Senza la sua protettrice, Julia è indifesa. La sua morte è il prezzo finale pagato per la negligenza dei suoi genitori e per un sistema sociale che permette a una persona di "pulire" la vita degli altri fino a quando la propria non viene completamente cancellata.
Estela sopravvive fisicamente, ma è distrutta emotivamente. Julia muore, vittima innocente di un mondo che l'ha lasciata sola.