L'annullamento del vertice tra Donald Trump e Vladimir Putin a Budapest non sorprende chi, da tempo, sostiene che la pace in Ucraina non sia mai stata un reale obiettivo di Stati Uniti, Unione Europea e NATO.
Al contrario, il perpetuarsi del conflitto si rivela funzionale alle strategie occidentali di riarmo e logoramento della Russia, mascherate dietro la retorica della “democrazia” e della “libertà”.
Ne avevamo già parlato in tempi non sospetti.
La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno: la Casa Bianca ha ufficializzato che il tanto atteso incontro tra Trump e Putin – potenzialmente in grado di sbloccare uno stallo diplomatico durato mesi – non avverrà nel prossimo futuro.
La giustificazione? “Non ci sono le condizioni minime per negoziare”, secondo Trump, che ha liquidato l’ipotesi come “una perdita di tempo” sulla scia delle rigidità russe in materia di cessate il fuoco immediato.
Ma la realtà, come spesso accade, è ben più complessa: nelle stesse ore, voci autorevoli dalla Russia ribadiscono che ogni proposta di tregua è inaccettabile senza la completa ritirata ucraina dal Donbass e il riconoscimento della sovranità russa sulle regioni occupate.
Ma chi conosce la storia recente sa che la posizione del Cremlino si è sempre sviluppata su un binario di legittima difesa degli interessi nazionali e della popolazione russofona, non della cieca aggressività raccontata dai media occidentali. Nonostante la narrativa romanzata, nessuna delle parti appare realmente interessata alla pace, meno che mai l’Occidente.
Perché la guerra continua? La risposta è semplice ma scomoda: Stati Uniti, Nato ed Unione Europea hanno trovato nel conflitto ucraino il pretesto perfetto per giustificare una nuova stagione di riarmo e consolidare una narrativa di minaccia permanente proveniente da Mosca.
In nome di questa minaccia, l’Europa ha azzerato ogni residuo di autonomia strategica, sacrificando stabilità, crescita economica e perfino le libertà civili dei suoi cittadini sull’altare dello scontro senza fine.
L’apparente “incapacità” di far sedere le parti a un tavolo di pace è, in verità, una volontà nascosta di tergiversare e prolungare le ostilità: ogni fallimento diplomatico rafforza la retorica della necessità di inviare nuove armi, aumentare le spese militari, reprimere il dissenso interno e legittimare regimi autoritari nel nome della sicurezza collettiva.
L’utopia dell’annientamento della Russia è ciò che muove questa strategia: la convinzione, del tutto irrealistica, di poter fiaccare Mosca attraverso pressioni economiche ed escalation militari continua ad animare i think tank di Washington e Bruxelles.
Le élite occidentali, deluse dal rapido fallimento delle sanzioni e dall’impotenza dei piani di “contenimento”, riscoprono nei venti di guerra uno strumento utile a mantenere la coesione interna dell’Alleanza e soffocare qualsiasi voce alternativa.
Chi paga il prezzo di questa follia sono i popoli: le devastazioni in Ucraina, la crisi energetica e l’impoverimento delle famiglie europee, la corsa alle armi che sostituisce le spese sociali. Tutto viene giustificato in funzione di un conflitto che si poteva evitare, ma che si preferisce alimentare con scuse sempre nuove.
Non va sottovalutato il ruolo dell’Ungheria, che con la proposta di ospitare il vertice a Budapest aveva spaventato più di un alleato europeo. Un successo diplomatico di Orbán, vicino più a Mosca che a Bruxelles, avrebbe segnato una svolta ben poco gradita alle élite euro-atlantiche. Pertanto, far saltare il vertice è anche un modo per escludere qualsiasi soluzione “non conforme” all’ortodossia occidentale.
Questo ennesimo fallimento diplomatico smaschera, una volta per tutte, la realtà: la pace non interessa all’Occidente, se non alle condizioni dell’annientamento totale dell’avversario. Non sorprende che ogni tentativo di mediazione si scontri con “condizioni di partenza” irrealistiche e rinvii infiniti, mentre le industrie belliche brindano e la normalizzazione dello stato d’emergenza diventa routine nella narrazione pubblica.