Quello di Celli è un esordio di genere con interessanti sperimentazioni, coerente con l’idea di cinema del produttore Matteo Rovere - l’obiettivo del suo Primo Re era proprio quello di adattare i linguaggi tipici dell’immaginario d’oltreoceano ai nostri territori - nell’impiantare l’azione su un substrato di realtà nostrana: la vicenda dell’Ilva, i quartieri Tamburi e Cittadella, Roma che non è più capitale, la fuga che dopo l’evacuazione - ironia della sorte - è pensabile solo verso l’Africa. Le atmosfere sono torbide e grigie, a metà tra Gomorra e Suburra, passando per La paranza dei bambini, ma in realtà c’è un po’ di tutto: Oliver Twist, Blade Runner, Mad Max, Fuga da New York. Un mondo nuovo, pessimista e rassegnato sulla cui spiegazione il regista non si sofferma troppo, ci basti sapere che prevede una Taranto vecchia in preda alla guerriglia e il degrado da favela brasiliana e una nuova, laccata e artificiale nel voler ricreare la normalità perduta. Ma c’è anche un ideale: bonificare e ripristinare. Questo in realtà ha in mente il personaggio di Borghi, forte di un’umanità imprevista, mentre si inserisce tra i due amici di sempre per sceglierne uno da incoronare nuovo pupillo.
Muri e barriere, salute, lavoro, relazioni, ricerca della libertà, Mondocane presentato a Venezia come unico titolo italiano nella Settimana della Critica, si rifà al nome di un negozio dato alle fiamme come rito di iniziazione ma è anche e soprattutto un’imprecazione, grido di dolore contro una realtà opprimente. Con pochi precedenti in Italia, il film di Celli fa bene nel coniugare denuncia sociale e spettacolo, e nonostante una sceneggiatura troppo spesso sbrigativa può vantare un finale particolarmente intenso e ben eseguito.
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