L'avvento dell'era digitale ha trasformato il modo in cui comunichiamo, rendendo piattaforme come Facebook e Instagram parte integrante della nostra vita quotidiana. Tuttavia, questo ha portato anche ad un aumento delle offese online, dove creare profili falsi è facile e gli insulti sono all'ordine del giorno. Ma insultare su Facebook può comportare delle conseguenze anche molto serie. Ecco cosa dice la normativa, e soprattutto cosa dice la giurisprudenza.
Nonostante la percezione comune che le offese online siano meno gravi rispetto a quelle frontali, la realtà è diversa. La diffamazione sui social network, come Facebook, è considerata dalla legge un reato di diffamazione aggravata. Questo è particolarmente rilevante in un contesto dove un messaggio offensivo può rapidamente raggiungere e influenzare un vasto pubblico.
Una sentenza della Corte di Cassazione del 2017 ha stabilito che le offese tramite Facebook (e, per estensione, altri social network) possono essere classificate come diffamazione aggravata, secondo l'articolo 595 del Codice Penale. Questo articolo specifica che se l'offesa avviene tramite stampa o altro mezzo di pubblicità, la pena può variare da sei mesi a tre anni di reclusione, o una multa significativa.
Un commento offensivo su Facebook può essere considerato diffamazione aggravata se soddisfa determinati criteri, tra cui la possibilità di identificare chiaramente il destinatario dell'offesa e la capacità del commento di raggiungere un ampio numero di persone. Anche le offese all'interno di gruppi chiusi possono rientrare in questa categoria.
Infatti, è anche importante distinguere tra offese ricevute pubblicamente e quelle in privato. Nel caso di messaggi offensivi inviati privatamente, la situazione potrebbe essere classificata come ingiuria, un illecito civile, piuttosto che come diffamazione aggravata.
Se si ricevono offese o commenti diffamatori su Facebook, è possibile agire legalmente. Questo include segnalare il commento e l'autore alla piattaforma, richiedere l'identificazione del responsabile attraverso la Polizia postale e Facebook, e salvare le prove, come screenshot, che possono essere autenticati notarilmente o testimoniati.
Esistono due percorsi principali per difendersi da offese e diffamazione su Facebook: un'azione penale contro l'autore dell'offesa e un'azione civile per il risarcimento del danno. È fondamentale conservare le prove delle offese, come screenshot o registrazioni, per sostenere la propria causa in tribunale.
In caso di offese o diffamazione su Facebook, è fondamentale segnalarlo alla piattaforma. Questo può essere fatto attraverso i form di segnalazione di Facebook o inviando una mail a abuse@facebook.com. Successivamente, è possibile intraprendere un'azione penale tramite querela, anche senza avvocato, presso le autorità competenti, specificando dettagli come la frase offensiva, gli estremi del profilo, e testimoni.
Per una condanna efficace, è essenziale accertare l'IP di provenienza del post. Questo numero univoco collegato a ogni dispositivo in rete consente di localizzare l'autore del post diffamatorio. La collaborazione di Facebook nelle indagini penali è cruciale, soprattutto in casi gravi come la pedopornografia.
La sentenza della Cassazione Penale, Sez. V, del 2 dicembre 2021, n. 4462, ha stabilito che non sussiste il reato di diffamazione se un'offesa via social media è rivolta a qualcuno che è online al momento. Questa decisione ha concluso un caso giunto alla Corte Suprema, in seguito all'appello di una sentenza precedente, che aveva condannato un individuo sia civilmente che penalmente per aver diffamato un'altra persona su un social network.
I giudici dei gradi inferiori avevano stabilito che l'imputato aveva postato commenti offensivi in una chat con la vittima e altre persone. L'imputato ha poi presentato un ricorso in Cassazione, sollevando tre questioni principali. La prima riguardava il dubbio sulla reale autorevolezza dei messaggi offensivi, data l'assenza di prove concrete e la mancanza di accesso al profilo della persona offesa. Il secondo motivo del ricorso riguardava la classificazione dell'atto come ingiuria piuttosto che come diffamazione. Il terzo motivo si basava sulla presunta reazione irata dell'imputato al comportamento della vittima.
La Corte ha ritenuto fondato solo il secondo motivo di ricorso, accettando che vi fosse un vizio motivazionale nella qualificazione dell'atto come ingiuria piuttosto che come diffamazione, data la partecipazione della persona offesa alla conversazione. La Corte ha chiarito che, per distinguere tra ingiuria e diffamazione, è decisivo il criterio della presenza, anche virtuale, dell'offeso. Pertanto, se l'offesa avviene durante una riunione a distanza con più persone, inclusa la vittima, si configura come ingiuria (reato depenalizzato). Invece, se le comunicazioni offensive sono indirizzate all'offeso e ad altri non contestualmente presenti, si configura come diffamazione. La Corte ha quindi invitato il giudice di rinvio a considerare questo schema nella valutazione del caso.
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I social media possono essere terreno fertile per vari reati, come cyberbullismo, revenge porn, stalking, adescamento di minori, minacce, sostituzione di persona e violazione della privacy. Le vittime di questi reati hanno il diritto di essere risarcite sia penalmente che civilmente per il danno morale subito.