Memoria e cinema potrebbero essere quasi sinonimi. La Settima Arte, come evoluzione della fotografia, nasce come strumento per fissare un momento nell'eternità e, così, riviverlo un numero indefinito di volte. Una macchina grazie alla quale i ricordi possono parlarci di nuovo, con i film come altoparlanti. È proprio in alcune pellicole cinematografiche, quindi, che la Giornata della Memoria delle vittime dell'Olocausto, che si celebra anche in questo 2024 il 27 gennaio, trova il dispositivo perfetto per lo scopo per il quale venne istituita il 1 novembre 2005 dall'Unione europea: tenere vivo l'orrore e le sue origini, affinché non si ripeta.
A ben pensarci, l'idea di una Giornata della Memoria dedicata all'Olocausto sembra quasi assurda.
Non è una provocazione, riflettiamo un secondo.
Non è ovvio definire la 'Shoah' la più immane tragedia della Storia dell'uomo? Certo, lo è. E, allora, che bisogno dovrebbe esserci di 'ricordarlo'? Perché dedicare un giorno a livello internazionale a questa reminiscenza, se è già così evidente?
Perché, proprio questa sua apparente 'ovvietà' è diventata cara agli indifferenti, quelli odiati da Antonio Gramsci. Come, a volte, anche inconsciamente, siamo tutti noi, seduti a quella tavola descritta da Primo Levi nell'epilogo de La tregua.
La Giornata della Memoria - istituita dall'Unione europea che la celebra anche quest'anno - risponde all'esigenza civile e morale di farci provare quell'angoscia di cui parla lo scrittore sopravvissuto ad Auschwitz, quel senso di "minaccia che incombe", anche nel nostro ambiente sereno, "apparentemente privo di tensione e di pena".
Un'esigenza assolta anche dal cinema dedicato all'Olocausto. Ecco, quindi, alcuni film da vedere o rivedere per scacciare l'indifferenza.
Una storia vera ma raccontata in un bianco e nero perfettamente levigato dallo sguardo impeccabile di un maestro come Janusz Kaminski (premio Oscar per la Fotografia). Come dire: la realtà e il suo opposto, insieme.
Steven Spielberg racconta la parabola di Oskar Schindler, imprenditore giunto a Cracovia per far soldi sfruttando la manodopera a bassissimo costo degli ebrei, che resta annichilito dalla spietatezza nazista al punto da finire in miseria per salvare i suoi lavoratori dai campi di sterminio.
Solo Spielberg poteva avere la giusta sensibilità e, al tempo stesso, il necessario distacco, per commuovere senza facili sentimentalismi, per celebrare l'eroismo senza retorica glorificante, per inorridire senza morbosità.
Regista dell'impossibile che diventa possibile grazie al potere del cinema - dalla minaccia di uno squalo così vera da far crollare il turismo per un'intera estate, a un bambino alieno che ha perso la strada di casa, da dinosauri redivivi e iperrealistici ad avventurosi professori di archeologia che risolvono i misteri della Storia del mondo - in Schindler's list l'equilibrio artistico di Spielberg si intreccia con quello morale.
Fascismo fa rima con conformismo, per Ettore Scola, qui alla sua ultima regia prima di un pensionamento obbligato dalla mancanza di spazi offerti da cinema e tv - in epoca berlusconiana - a un maestro della sua caratura.
Concorrenza sleale è la storia di una rivalità tra due uomini che si odiano perché l'uno il riflesso dell'altro. Simili i loro caratteri così come le loro famiglie e il loro approccio agli affari, Umberto (Diego Abatantuono) e Leone (Sergio Castellitto) potrebbero benissimo essere amici, se gli interessi di bottega, prima, e l'orrore della Storia, poi, non si mettessero in mezzo.
La vicenda, infatti, è ambientata nella Roma del 1938, ricostruita a Cinecittà con scenografie tanto pregevoli da venire riutilizzate da Dante Ferretti per Gangs of New York di Scorsese. È l'anno delle 'leggi razziali', che fanno presa su un tessuto sociale vigliacco, che Scola tratteggia con la consueta ironia, velata, però, da inquietudine. I fascisti del suo film sono ridicoli, lo stereotipo degli italiani sfaticati, indolenti e cialtroni e, quindi, perfetti per un regime fatto a loro immagine e somiglianza, che ha dato loro una divisa dietro cui nascondere la loro idiozia.
Ma le loro azioni e gli effetti che producono sono terribili. Ancor più perché commesse nell'ignoranza che solo la cieca obbedienza e, appunto, il conformismo più codardo possono creare.
L'ultimo film di un maestro del cinema italiano ci lascia con un ammonimento preciso: il fascismo può tornare perché la stupidità e la vigliaccheria che portano al conformismo di cui esso si alimenta non sono scomparse nel 1945.
Come Scola, anche Francesco Rosi - regista di capolavori di impegno civile come Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970) o Il caso Mattei (1972) - dedica la sua ultima regia all'Olocausto e alle sue vittime.
Lo fa prendendo sulle sue spalle il peso del libro omonimo di Primo Levi, per raccontare il ritorno a casa di alcuni prigionieri italiani del campo di sterminio di Auschwitz, subito dopo la liberazione da parte dei russi.
La storia è quella di un ritorno alla vita, ma non di una rinascita. Troppo dolore e troppe tragedie vissute per poter ricominciare daccapo come nulla fosse successo. Tuttavia, si può scoprire una nuova vita, un nuovo amore, un nuovo mondo libero dalla barbarie della guerra. Perché ciò che Rosi - sull'insegnamento di Levi - intende sottolineare è proprio la necessità di conservare il ricordo di quel Male, dimostrando come la speranza di una qualche felicità sia comunque possibile.
Le emozioni provocate da un film sono meccanismi di memoria fondamentali soprattutto per chi ancora non conosce la storia dell'Olocausto.
Ora che le voci dei testimoni diretti di quell'orrore sono sempre più flebili, i libri di Storia rappresentano, solitamente, il primo approccio di bambini e ragazzi a questa coscienza condivisa della Shoah. Tuttavia, la cronaca, le date e i numeri - per quanto siano terribili gli oltre sei milioni di morti tra ebrei, persone con disabilità, di etnia Rom e Sinti, persone omosessuali, oppositori politici - non bastano spesso a far comprendere la portata di quella tragedia.
Per questo ci sono alcuni film che possono esser visti insieme ai più giovani. Di seguito, ne proponiamo un paio.
"Quando uno legge la storia dell'Olocausto, ti cambia la vita".
Sono le parole con cui Roberto Benigni spiegava il motivo per cui lui, attore comico non ebreo, avesse deciso di cimentarsi con la barbarie nazista della Shoah.
Come Scola, l'attore e regista toscano lascia a fascisti e nazisti solo due dimensioni. Non serve, infatti, approfondire qualcosa di tanto vuoto eppure terribile. Conta solo ciò che sta intorno a quel vuoto: la paura e la sofferenza, certo, ma anche l'amore che sopravvive e resiste nonostante tutto.
Come quello di Guido (Benigni), sua moglie Dora (Nicoletta Braschi) e il loro figlio Giosuè (Giorgio Cantarini), una famiglia intera deportata in un campo di sterminio. Anche il luogo di questo Male assoluto e senza senso può, però, diventare qualcos'altro, magari un parco giochi dove trasformare una realtà atroce in una favola.
A patto di non scordarsi mai della felicità, come fa il padre interpretato da Benigni, che fa tutto ciò che è in suo potere per conservarla anche nella memoria di suo figlio.
Lo sberleffo e il paradosso de La vita è bella, finiscono 'sotto steroidi' nelle mani di Taika Waititi.
Il piccolo Jojo che dà il titolo al suo film è un ragazzo tedesco figlio di una madre single, taciturno e solitario, che trova nel nazionalismo del Terzo Reich un possibile appiglio per sfuggire alle sue insicurezze.
Sarebbe stato facile trarre da questa storia un dramma sulla manipolazione delle fragili coscienze del popolo tedesco da parte di Adolf Hitler, ma non sarebbe stato un film di Waititi! Ecco, quindi, che il regista appare nei panni dell'amico immaginario del piccolo Jojo, che altri non è se non un Führer ridicolo e, sostanzialmente, imbecille.
La commedia diventa, così, parodia liberatoria nella quale, però, si innestano momenti di dramma, per non dimenticare la tragedia, pur mantenendo la speranza.