In un contesto aziendale, la sottoscrizione di strumenti finanziari partecipativi (SFP) da parte di manager e dipendenti è una pratica diffusa per allineare gli interessi del management con quelli degli investitori. Tuttavia, la qualificazione fiscale dei proventi derivanti da tali strumenti richiede un'analisi approfondita delle normative vigenti. In questo articolo andremo a esaminare il caso specifico di una società che ha richiesto un interpello all'Agenzia delle Entrate riguardo al trattamento fiscale degli SFP.
L'istanza di interpello è stata presentata da una società partecipata al 60% da Beta Holding S.p.A. e al 40% da Gamma S.p.A. La Holding è interamente detenuta da un fondo di investimento gestito da Delta SGR S.p.A. La società detiene il 100% del capitale sociale di Alfa S.p.A. Il Consiglio di amministrazione ha approvato un piano di co-investimento per manager, dipendenti e amministratori di Alfa, che prevede la sottoscrizione di SFP emessi dalla società.
Gli SFP sono suddivisi in due categorie, SFP/A e SFP/B, con condizioni e termini differenti. Vengono emessi ad un valore nominale di 0,10 euro ciascuno, per un importo massimo complessivo di 5.000.000 euro. Alcuni manager usufruiranno di un finanziamento fruttifero per la sottoscrizione, che dovranno rimborsare con un interesse del 1,25% annuo entro sette anni o entro il 31 dicembre 2030.
Il quesito principale riguarda la qualificazione fiscale dei redditi derivanti dagli SFP. L'articolo 60 del Decreto Legge 50/2017 stabilisce una presunzione assoluta per la qualificazione dei redditi come finanziari solo se l'investimento minimo da parte del management è pari almeno all'1% del valore corrente del patrimonio della società. Nel caso in esame, l'investimento dei manager è pari allo 0,64%, quindi inferiore al requisito dell'1%.
Gli SFP conferiscono ai sottoscrittori diritti patrimoniali specifici:
Gli SFP sono intrasferibili tra vivi, salvo specifiche eccezioni. In caso di cessazione anticipata del rapporto lavorativo, i diritti di riscatto variano in base alla causa di cessazione, distinguendo tra "Good Leaver" e "Bad Leaver". Nel primo caso, i titolari possono ottenere il riscatto degli SFP al valore di mercato, mentre nel secondo caso, il riscatto avviene al minore tra il valore di mercato e il valore nominale.
La società richiedente ritiene che i redditi derivanti dagli SFP possano essere qualificati come redditi di natura finanziaria, anche in assenza del requisito dell'investimento minimo dell'1%. La società fa riferimento a una risposta dell'Agenzia delle Entrate del 2021, in cui un investimento minimo dello 0,5% è stato considerato significativo per determinare l'allineamento degli interessi del management con quelli degli investitori.
L'Agenzia delle Entrate ha analizzato il caso considerando le specifiche caratteristiche degli SFP e le condizioni di sottoscrizione. Ha quindi messo in evidenza che la remunerazione dei manager è adeguata e che essi mantengono la titolarità degli strumenti finanziari anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro. Questi elementi sono considerati rilevanti per la qualificazione dei redditi come finanziari.
L'articolo 60 del Decreto Legge 24 aprile 2017, n. 50, stabilisce che i proventi derivanti dalla partecipazione a società, enti o organismi di investimento collettivo del risparmio (OICR), percepiti da dipendenti e amministratori, siano considerati redditi di capitale o redditi diversi se relativi a strumenti finanziari con diritti patrimoniali rafforzati. Questa presunzione si applica solo se vengono rispettate specifiche condizioni:
Nel caso specifico sottoposto all'Agenzia delle Entrate, il requisito dell'investimento minimo non è stato soddisfatto, poiché l'impegno dei manager ammonta solo allo 0,64% del capitale investito. Nonostante ciò, l'ammontare assoluto dell'investimento è rilevante, pari a 2.900.000 euro.
In assenza del rispetto del requisito dell'investimento minimo, è necessaria un'analisi per determinare se i proventi derivanti dagli SFP rappresentino una forma di remunerazione per la partecipazione al capitale di rischio o se costituiscano un incentivo per l'attività lavorativa svolta.
L'Agenzia delle Entrate ha chiarito che, anche in mancanza del requisito dell'investimento minimo, i proventi possono essere considerati di natura finanziaria se vi è un effettivo allineamento degli interessi tra manager e investitori e una correlata esposizione al rischio di perdita del capitale investito.
Un elemento critico emerso è il finanziamento fruttifero erogato dalla società ai manager per la sottoscrizione degli SFP, a un tasso d'interesse annuo del 1,25%, ben al di sotto del tasso di mercato. La circolare n. 25/E del 2017 dell'Agenzia delle Entrate ha chiarito che l'uso di finanziamenti a condizioni di particolare favore può compromettere la qualificazione dei proventi come redditi finanziari, in quanto non garantisce un'effettiva partecipazione al rischio economico.
L'articolo 51, comma 3, del TUIR (Testo Unico delle Imposte sui Redditi) prevede che il differenziale di interesse sui finanziamenti agevolati costituisca un fringe benefit per il dipendente, da assoggettare a tassazione. Nel caso specifico, il differenziale tra il tasso di mercato e il tasso agevolato applicato deve essere tassato come reddito di lavoro dipendente.
L'Agenzia delle Entrate ha esaminato le clausole contrattuali relative agli SFP, rilevando che i manager sono effettivamente esposti al rischio di perdita del capitale investito, senza garanzie di restituzione in caso di cessazione anticipata del rapporto di lavoro (good leaver o bad leaver). Inoltre, la remunerazione dei manager è stata giudicata congrua rispetto agli standard di settore, con una parte fissa e una parte variabile.