L'ondata di tensioni e violenze all'interno delle carceri italiane non accenna a placarsi, nonostante le ripetute denunce del SAPPE, il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria. Anzi, la delicata situazione sta raggiungendo livelli sempre più alti di esasperazione. Le cause principali sono il sovraffollamento, la scarsità di organico e la presenza di soggetti psichiatrici, privi della dovuta assistenza. I giornalisti di TAG24 si sono rivolti al Segretario Generale del Sappe, Donato Capece, per analizzare la crisi e capire cosa accade dietro le mura delle case circondariali del nostro Paese.
Sono quasi quotidiane le notizie di violenze, incendi nelle celle o gesti estremi di suicidio all'interno delle carceri da nord a sud Italia. Nessuna eccezione. Episodi che il Sappe e gli altri sindacati sono, ormai, stanchi di denunciare. Cosa ha portato all'aggravamento della questione? Sul punto il Segretario Generale del Sappe, il dott. Donato Capece, ha spiegato ai giornalisti di TAG24 che la problematica derivi, soprattutto, da due fattori:
"Il progressivo aumento delle presenze tra i detenuti - 61.547 i presenti alla data del 31 maggio 2024 a fronte di una capienza regolamentare di circa 51mila posti letto - e l'organizzazione interna dei penitenziari basata sulla vigilanza dinamica ed il regime aperto. Condizione accentuata da una significativa presenza di detenuti stranieri (quasi 20mila). Già questo evidenzia una possibile azione di intervento che si dovrebbe assumere. Da tempo il SAPPE denuncia il ciclico ripetersi di eventi critici in carcere che vede coinvolti detenuti stranieri.
È sintomatico che negli ultimi dieci anni ci sia stata un'impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane. Da una percentuale media del 15% negli anni '90 sono passati oggi ad essere quasi 20mila. Fare scontare agli immigrati condannati da un tribunale italiano con una sentenza irrevocabile la pena nelle carceri dei Paesi d'origine può anche essere un forte deterrente nei confronti degli stranieri che delinquono in Italia. Il dato oggettivo è però un altro: le espulsioni di detenuti stranieri dall’Italia sono state fino ad oggi assai contenute, oserei dire impercettibili. E credo si debba iniziare a ragionare di riaprire le carceri dismesse, come l’Asinara e Pianosa. Qui, si potrebbero contenere quei ristretti che si rendono protagonisti di gravi eventi turbativi dell’ordine e della sicurezza durante la detenzione".
A sconvolgere ulteriormente l'opinione pubblica sono i casi di aggressione e violenza agli stessi agenti. Vittime, a volte, collaterali, ferite nel tentativo di separare due detenuti in lite oppure veri e propri soggetti di attacchi pianificati. Purtroppo, però, non sempre gli agenti della polizia penitenziaria sono in numero sufficiente per sedare le rivolte o effettuare controlli più frequenti e approfonditi.
D: Secondo il protocollo, in caso di rivolte o episodi di violenza, cosa è permesso fare agli agenti?
R: Con il Manuale operativo approvato a settembre 2023, sono state fornite agli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria "regole di ingaggio" univoche, uniformi per tutto il territorio nazionale. Così da seguire le stesse procedure per affrontare gli eventi critici che si verificano negli istituti penitenziari. È uno strumento utile, valido per limitare e ridimensionare le denunce, spesso strumentali, dei detenuti su presunti maltrattamenti o financo di tortura in cui rischia di incorrere sempre di più il personale di Polizia Penitenziaria nei casi di intervento per riportare l'ordine e la sicurezza interna alle carceri. Per rispondere nel merito, ogni intervento dei nostri Baschi Azzurri deve conciliare l’ordine di garantire ordine e sicurezza nelle carceri con il rispetto della dignità umana, anche nelle situazioni in cui violenza e tensione sono maggiori.
In una situazione così delicata, quindi, è impossibile non pensare a quali soluzioni si potrebbero adottare per arginare i comportamenti più aggressivi dei detenuti. In particolare, richiedono la massima attenzione quegli episodi estremamente gravi e, purtroppo, anche frequenti, come, appunto, i suicidi. Il dott. Capece, infatti, ha messo in evidenza le circostanze che hanno condotto alla crisi e alcune possibili soluzioni che, invece, potrebbero porvi rimedio, seppur una sostanziale modifica debba provenire dal governo:
"Prima parlavo delle espulsioni dei detenuti stranieri, per fare scontate loro la pena nelle carceri dei Paesi di provenienza. Ma un altro grave problema va messo in evidenza. L’effetto che produce la presenza di soggetti psichiatrici in carcere. Questa è causa di una serie di eventi critici che inficiano la sicurezza dell’istituto oltre all’incolumità del poliziotto penitenziario. Sono anche le conseguenze di una politica miope ed improvvisata, che ha chiuso gli ospedali psichiatrici giudiziari senza trovare una valida soluzione su dove mettere chi li affollava.
Lo dicemmo subito. È stato un gravissimo errore la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari senza una riforma adeguata alle esigenze dell'intero sistema. Tanto che la stessa creazione di strutture quali le REMS si sta dimostrando fallimentare. Gli OPG devono riaprire, meglio strutturati e meglio organizzati. Ormai, in ogni carcere decine e decine di detenuti con gravi problemi psichiatrici vengono ospitati normalmente in cella con altri detenuti che non hanno le stesse difficoltà. Di conseguenza, i poliziotti penitenziari, oltre a essere costretti a gestire la sicurezza delle carceri, spesso in grave carenza di organico, devono affrontare da soli questi squilibrati senza alcuna preparazione e senza alcun aiuto. Non è corretto soltanto ammettere l’esistenza della questione e poi far solo finta di aver risolto un problema, che invece sta esplodendo sempre di più nella sua drammaticità.
Questi detenuti sono responsabili di vero e proprio vandalismo all’interno delle celle. Qui, vengono disintegrati arredi e sanitari, permettendogli, inoltre, di armarsi con quanto gli capita per le mani e sfidare i poliziotti di vigilanza. Dai dati in nostro possesso sappiamo che quasi il 30% delle persone, italiane e straniere, detenute in Italia, 1 su 3, ha problemi di droga. Va ricordato che le persone tossicodipendenti o alcoldipendenti all'interno delle carceri sono presenti per aver commesso vari tipi di reati e non per la condizione di tossicodipendenza. Tuttavia, la loro presenza comporta notevoli problemi sia per la loro gestione all'interno di un ambiente di per sé così problematico, sia per la complessità che la cura di tale stato di malattia comporta. Indubbiamente, chi è affetto da tale condizione patologica debba e possa trovare opportune cure al di fuori del carcere.
Ecco, allora, che intervenire su questi aspetti specifici potrebbe produrre una serie di miglioramenti nel sistema penitenziario, rivendendo anche una vigilanza dinamica ed un regime penitenziario aperto che non hanno senso se i detenuti non lavorano o non sono impegnati nelle attività varie professionali, lavorative, di studio: certo non oziare in cella o nei corridoi, a fare nulla tutto il giorno".
La storia, però, insegna. O quantomeno dovrebbe farlo, giacché lo spinoso tema del sovraffollamento non è una novità nel nostro Paese. Anzi, come un elettrocardiogramma, questi picchi di violenza e caos nelle carceri si ripresentano ciclicamente e ogni volta, pare, che la soluzione immediata per allentare la tensione sia proclamare un indulto.
Questo 2024 sembra presentare, infatti, le medesime caratteristiche di crisi delle annate che hanno portato all'indulto o all'amnistia. Così, hanno cominciato a circolare le voci che paventano questa possibilità, tuttavia, il Segretario Generale ne sottolinea l'inutilità.
D: Da fonti, pare che aleggi nell'aria la possibilità che venga proclamato un indulto per "risolvere" il problema del sovraffollamento. Le voci sono vere? È una possibilità reale? Cosa ne pensa?
R: Questa è una decisione che spetta alla politica. Ma vogliamo parlare di come vasti settori della politica e della stampa intesero ed intendono la sensibilità sui temi penitenziari? Ricordate l’indulto del 2006? Noi dicemmo subito, con comunicati stampa e dichiarazioni in sede di audizioni varie in Parlamento (e non solo), che senza una seria politica di riforme strutturali sul sistema penitenziario, insieme a un provvedimento di clemenza, le carceri sarebbero tornate a livelli allarmanti di affollamento. E così fu.
A maggio 2006, prima dell’approvazione dell’indulto da parte del parlamento, nelle carceri italiane erano presenti circa 61mila detenuti. Questi erano frutto di una crescita costante: erano 51mila a dicembre 1999, 53mila a dicembre 2000, fino a raggiungere i 59mila nel 2005. Usufruirono dell’indulto 23mila persone circa su un totale, come detto, di oltre 26 mila. Nel primo mese dalla sua entrata in vigore, l’indulto permise così alle carceri di alleggerirsi di quasi un terzo della popolazione carceraria complessiva. Con il passare degli anni, tuttavia, le celle sono tornate a riempirsi a tempo di record, superando anche la quota pre-indulto, che aveva portato all’adozione del provvedimento. Al 30 giugno 2007 - 11 mesi dopo l’approvazione dell’insulto - i detenuti erano quasi 44mila, crescendo esponenzialmente: nel 2010 i detenuti erano quasi 68mila. In generale, in tre anni la popolazione carceraria è tornata alla situazione pre-indulto, provvedimento che dunque non è servito a nulla.
Penso, piuttosto, che servirebbero interventi urgenti e strutturali che restituiscano la giusta legalità al circuito penitenziario intervenendo in primis sul regime custodiale aperto. E la via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi è quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Certo non indulti o amnistie.
Come sottolinea il Segretario Generale, diverse sono le ipotesi più efficienti ed efficaci per rinnovare il sistema carcerario e risolvere definitivamente il problema del sovraffollamento. Tuttavia, nulla può essere fatto senza l'importante aiuto dello Stato:
"Si potrebbe ipotizzare un nuovo sistema penitenziario articolato su tre livelli. Il primo, per i reati meno gravi con una pena detentiva non superiore ai 3 anni, caratterizzato da pene alternative al carcere, la messa alla prova". l secondo livello è quello che riguarda le pene detentive superiori ai 3 anni, che inevitabilmente dovranno essere espiate in carcere, ma in istituti molto meno affollati per lo sgravio conseguente all’operatività del primo livello e per una notevole riduzione dell’utilizzo della custodia cautelare. Il terzo livello, infine, è quello della massima sicurezza, in cui il contenimento in carcere è l’obiettivo prioritario.
Nell’ambito delle prospettive future occorre dunque che lo Stato, pur mantenendo la rilevanza penale, indichi le condotte per le quali non è necessario il carcere. Bisognerebbe che ipotizzasse sanzioni diverse, ridisegnando in un certo senso l’intero sistema, anche perché il sovraffollamento impedisce di fatto la separazione dei detenuti. La Polizia penitenziaria, che riteniamo debba connotarsi sempre più come Polizia dell’esecuzione penale, è sicuramente quella propriamente deputata al controllo dei soggetti ammessi alle misure alternative".