Whistleblowing, arriva la sentenza di Cassazione che conferma il licenziamento per chi segnali situazioni infondate e, al limite, abusi o utilizzi l'istituto a fini personali. Il caso è quello di una lavoratrice e dirigente di primo livello di un istituto pubblico che contesta il licenziamento per giusta causa irrogatole dall'ente nel 2019 a seguito della contestazione disciplinare dell'agosto dello stesso anno.
La vicenda aveva avuto inizio con la segnalazione, a vari livelli, da parte della lavoratrice circa l'operato di un suo dirigente superiore in termini di condotte illecite - cosiddetto "whistleblowing" - e di sottrazione, da parte dell'allora superiore, di fondi pubblici del Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (Miur) in relazione al progetto, per il periodo dal 2012 al 2018, di "Studio di preparazione dei forti terremoti".
Peraltro, nella sua azione, la lavoratrice aveva coinvolto anche un professore dell'Università di Padova con il quale l'ente aveva avuto rapporti, pubblicando su un social network stralci di conversazione registrate in maniera abusiva.
La Corte d'appello di Roma ha confermato in secondo grado il licenziamento della lavoratrice dell'istituto pubblico a seguito di un utilizzo distorto della procedura di whistleblowing. Nel caso specifico, la ricorrente licenziata dall'ente pubblico ha effettuato la segnalazione in maniera non conforme a quanto prevede la normativa, con mancata applicazione del principio di riservatezza del soggetto segnalato, diritto del quale gode insieme al soggetto segnalante nelle procedure di whistlblowing.
La sentenza, la numero 17715 del 27 giugno 2024, tiene conto del ribaltamento del principio che chi denuncia violazioni e illeciti nella Pubblica amministrazione non possa subire conseguenze disciplinari, rilevanti anche ai fini penali, legati alla scoperta e alla denuncia del malaffare. Nel caso specifico, tale istituto non può essere esteso "fino a ricomprendere l'ipotesi del lavoratore che effettui, di propria iniziativa, indagini e violi la legge per raccogliere prove di illeciti nell'ambiente di lavoro, operando la stessa solo nei confronti di chi segnala notizie di un'attività illecita senza che sia ipotizzabile una tacita
autorizzazione a improprie e illecite azioni di indagine".
Nel contesto che si era venuto a creare, nel 2019 l'istituto pubblico aveva licenziato per giusta causa la lavoratrice che aveva denunciato al responsabile anticorruzione le circostanze sopra descritte, gettando discredito sia sul collega (e superiore) di lavoro che sull'istituto pubblico stesso, i quali avevano di conseguenza agito a propria tutela.
Nel dettaglio, si legge nella sentenza di whistleblowing, il responsabile anticorruzione, ricevuta la segnalazione ("soffiare nel fischietto") dalla lavoratrice, aveva concluso che la segnalazione stessa non potesse rientrare nelle fattispecie e nelle tutele previste dall'articolo 54 bis del decreto legislativo numero 165 del 2001 in quanto "non era stata trasmessa con le modalità previste dal piano triennale di prevenzione della corruzione 2018-2020 e che, in ogni caso, dalla relazione del responsabile anticorruzione, non era emersa alcuna anomalia nella gestione delle vicende segnalate (dalla dipendente poi licenziata)".
Inoltre, l'ente contesta alla segnalante di aver utilizzato in maniera impropria l'istituto del whistleblowing, "riportando circostanze risultate non vere che avevano diffamato e nociuto all'onore e alla reputazione dell'allora direttore, attraverso l'inoltro, via Pec, agli altri destinatari (alla direzione dell'ente e agli indirizzi personali del direttore, n.d.r.) di un modello whistleblower con la richiesta di avvio di procedimenti disciplinari nei confronti del direttore".
Nell'ambito dell'intera vicenda, emerge un'ulteriore contestazione fatta alla lavoratrice, poi licenziata, di aver registrato di nascosto un professore dell'Università di Padova, indicato come "professore padovano", l'unico con il quale l'ente romano abbia avuto rapporti e perciò inequivocabilmente individuabile, e di aver pubblicato stralci di conversazione sul proprio profilo personale di Facebook, alludendo a "seminari sospetti".
Anche in questo caso, si legge nella sentenza, l'operato della dipendente "costituiva una 'grandissima violazione delle norme che regolano li rapporto di lavoro'"', e così, in particolare degli articoli 3 e 13 del codice di comportamento (compromissione dell'immagine dell'Istituto e violazione dell'obbligo di tenere condotte tali da favorire un clima di rispetto reciproco e di evitare ogni comportamento molesto e lesivo della dignità della persona) e degli articoli 1 e 13 del Ccnl di categoria (violazione dell'obbligo di tenere una condotta corretta e del divieto di astenersi da comportamenti lesivi della dignità della persona, con intenzionalità del comportamento)".