Acuto è un piccolo comune del frusinate, assai prossimo ad Anagni: una cittadina collinare, nel territorio che fu degli Ernici, popoli che non pochi problemi procurarono a Roma; una realtà senza particolari pregi, se non quelli che derivano dal suo territorio, dalle sue tradizioni storiche e culturali fra le quali rientra, non ultima, la gastronomia.
Siamo nelle Terre della Ciociaria, realtà a metà strada fra Roma e Napoli, dove, citando il “Ciociaro” Cicerone possiamo ricordare che ci sono “stirpi antichissime” e molteplici lasciti (“multa vestigia”) del territorio e degli antenati.
Pur essendo originario di Arpino, dove ho vissuto per vent’anni, e pur frequentando la Ciociaria da diversi lustri, ho conosciuto questa realtà solo recentemente, grazie a “Le Colline Ciociare” di Salvatore Tassa. Un ristorante che tutti i buongustai (oggi di dice “gourmet”) della zona e non solo, conoscono. Da vent’anni Salvatore Tassa ha una Stella della guida Michelin e da alcuni anni gestisce e cucina anche a “ Nù. Trattoria dal 1960”, che si trova sotto il più celebre ristorante stellato.
La Ciociaria ha una ricca tradizione gastronomica derivante da fattori diversi: geografici, orografici, storici e antropologici. Si trova fra Roma e Napoli, ma è soprattutto da Partenope che ha ricevuto i maggiori influssi, a partire dal linguaggio e non da ultimo la cucina. È un territorio quello ciociaro a tratti pianeggiante, solcato da fiumi come il Liri e l’Aniene, dove predomina la collina con presenze floreali tipiche delle medie altitudini: l’olivo e la vite. Ha un’agricoltura da collina, per così dire, che viene integrata con allevamenti di animali da cortile come galline e conigli; non mancano gli animali da latte come pecore, mucche e capre, con relative tipologie di formaggi, senza dimenticare il tradizionale allevamento dei maiali, di cui si consuma praticamente ogni parte. Ma sono pure diffusi prodotti spontanei del bosco e della montagna, come i funghi e i tartufi.
Fino alla seconda metà del secolo scorso, il Ciociaro, veniva rappresentato nell’immaginario collettivo, ad esempio a Roma, come il contadino, il “burino” sempliciotto, con il suo cesto delle uova e del formaggio, anche se fra questi “burini” si trovavano personaggi del calibro di Marcello Mastroianni e Vittorio De Sica, Ennio Morricone, Nino Manfredi e Umberto Mastroianni, per ricordarne solo i più noti fra i contemporanei.
Questo territorio offre una naturale base di prodotti e di cultura al lavoro di un “cuciniere”, a chi voglia attingere da questa realtà e dalla sua tradizione alimentare. Pensiamo, ad esempio al ricchissimo patrimonio costituito dalla pasta all’uovo, come le fettuccine e i fini-fini e da altre paste lavorate a mano come gnocchi e “sagnette”, o alle paste all’uovo usate per base di piatti come i ravioli o i cannelloni, i tortelli o le lasagne.
Salvatore Tassa, chiamando il suo ristorante stellato “Le Colline ciociare” ha fatto un esplicito rinvio alla tradizione enogastronomica della sua terra, confermato anche nella Trattoria Nú, che in dialetto significa “Noi”, come il pronome francese, diversamente scritto. Come ogni cuoco e ristoratore che operi in un contesto che ha una ricca e lunga tradizione legata al territorio ed alla sua cucina, anche Salvatore Tassa si è dovuto confrontare con questa tradizione, per combinarla con le sue idee ed il suo progetto di ristorazione, termine adeguato ad evidenziare la capacità del cibo di soddisfare un bisogno naturale, ma pure attento al il piacere che ne può derivare, ben oltre la soddisfazione dell’esigenza materiale.
La “tradizione” in cucina, come in altri ambiti, evoca un concetto ed una pratica tutt’altro che scontati. Alla lettera il “tradere” rinvia alla trasmissione, che è allo stesso tempo un “tradire”, cioè un trasformare: esito inevitabile se si passa da un contesto ad un altro, a differenti interpretazioni ed elaborazioni di procedure e materie prime. Senza considerare un dato parimenti importante: una tradizione in ambito culinario, anche la più raffinata e articolata, non può mai esprimere appieno le potenzialità di un territorio e di una cultura gastronomica, che sono elementi dinamici in trasformazione permanete, come le tecniche di elaborazione, coltivazione e intervento sul territorio. La cucina è il risultato di un’interazione fra uomo e territorio, interazione mediata dalle scienze, dal mercato, dalle tecniche, dalle mode, ecc. Oggi, ad esempio, è possibile una cucina internazionale perché esiste una società multiculturale e globalizzata e, per un altro verso, le comunicazioni permettono la disponibilità, prima impensabile, dei prodotti più vari.
Una cucina legata al territorio oggi è diversa da quella che lo stesso territorio poteva esprimere appena qualche decennio addietro. Un esempio emblematico è rappresentato dal vino, risultato di fattori molteplici: di un certo territorio, della sua collocazione geografica, dalla composizione del terreno, della sua esposizione e del clima che lo caratterizza. Fondamentale l’intervento umano, la selezione dei vitigni, le tecniche di coltivazione, l’ausilio di certe tecnologie che permettono di vinificare in modo non invasivo e rispettoso del prodotto biologico. Importante è la scelta dei vitigni e delle combinazioni degli stessi, come pure dei tempi e delle procedure di vinificazione. Aspetto non secondario è il marketing: l’ estetica del prodotto, la sua promozione e la sua commercializzazione. Molti di questi aspetti sono oggi sostanzialmente diversi da quelli che si adottavano solo qualche decennio addietro. La ricerca nel campo dell’enologia e della agronomia con l’utilizzazione di moderne tecnologie ha permesso di trasformare regioni come la Sardegna e la Sicilia, che nell’arco di pochi decenni hanno nettamente migliorato quantità e soprattutto qualità della loro produzione vinicola. Questo è avvenuto ed avviene su scala globale, pensiamo al caso armeno: la produzione del vino era stata ridimensionata, a favore della Georgia, dall’epoca di Stalin. Ancora qualche anno fa, come potetti verificare di persona, la produzione era scarsa e di qualità mediocre. Negli ultimi cinque anni le cantine sono sestuplicate, da 25 a 150 e ci sono almeno 1000 etichette, in una nazione poco più estesa della Lombardia e con meno di tre milioni di abitanti.
Nella cucina di Salvatore Tassa si combina tradizione e ricerca, con una tensione fra passato ed innovazione che ogni uomo libero ed intelligente dovrebbe avere, perché sta ad indicare un approccio per così dire esistenziale che va oltre l’ambito professionale o della gastronomia e che io spesso consiglio ai miei studenti. Credo che per conoscere la propria realtà, la propria storia e la propria tradizione, anche quella eno-gastronomica, occorra uscirne: viaggiare, vivere in altri modi e in altri posti, imparare che il nostro stile di vita è solo uno fra quelli possibili. Il viaggio ci permette di cambiare le prospettive di osservazione, di imparare; in ambito gastronomico di assaporare altri prodotti, altre combinazioni, altre preparazioni: ci arricchisce e ci stimola. Solo allora si può tornare a casa, riscoprirla con diversi occhi, non più attraverso modalità di adesione-identificazione, ma come se la osservassimo dall’alto e in prospettiva, cogliendo una serie di aspetti e sfumature, prima percepiti, ma conosciuti solo superficialmente. Hegel diceva che ciò che è noto non è conosciuto, perché dato per scontato e non indagato seriamente.
La cucina può essere una riprova di quanto appena detto, in quanto sintesi di natura, cultura, storia, tecnologia e, ovviamente, estro personale.
Per i motivi su ricordati, in cucina, come nella vita, la formazione è permanente perché un diploma, uno stage, un riconoscimento seppure importanti non bloccano il fluire degli eventi, le scoperte, le innovazioni, le trasformazioni, le aspettative nostre e di chi ci circonda.
Salvatore Tassa con il suo percorso esistenziale e professionale ben rappresenta i legami con la storia della terra ciociara e l’apertura al mondo, alle innovazioni ed alle tecniche della modernità. Nato a Brandford , in Inghilterra da una famiglia di ristoratori, studi di architettura e scienza della formazione, quasi per caso sceglie di proseguire l’attività di famiglia; fa esperienze in Europa ed America Latina, poi gestisce “Le Colline Ciociare “ e “Nú” ad Acuto. A sessant’anni compiuti Salvatore Tassa non ha esitato a fare uno stage al Pavillon Ledoyen di Parigi, il noto locale di Yannik Allenò, per approfondire le tecniche delle fermentazioni e delle estrazioni a freddo, non per creare una cucina più elaborata, ma più naturale, più semplice. Come nel caso della sua celebre “cipolla fondente”, cipolla ripiena di cipolla, dove per semplicità si deve intendere, alla maniera di Aristotele, la capacità e la voglia di andare alla sostanza, alla natura profonda di certi sapori, per coglierne l’intensità ed insieme l’originalità.
La tradizione, sostiene Salvatore Tassa, va interpretata, costantemente ricreata. Uno dei miei Maestri, Augusto Del Noce, ricordava che la tradizione ha un senso in quanto trasmissione di valori, di ciò che merita di essere consegnato alle nuove generazioni. Ciò che oggi creiamo, se ha una sua dignità e un valore riconosciuto, diventa parte di una tradizione culinaria che non può ridursi a un reperto museale, ma è la vivente storia di un territorio, delle sue trasformazioni, delle persone che con esso interagiscono, delle nuove tecniche che possono valorizzare la terra e i suoi prodotti, di quanto si può apprendere da altre culture e tradizioni.
Salvatore Tassa e il prof. Enrico Ferri
Sono stato recentemente, con Silvia ed Antonio due amici di Arpino, da Salvatore Tassa, a “Nú Trattoria italiana dal 1960”, in quel di Acuto. Abbiamo preso tre menù degustazione, ad un costo più che onesto di 50 euro l’uno. L’inizio è stato fresco ed avvolgente, un’insalata con liquirizia e pecorino bronzino, un tipo di formaggio di cui si ha traccia negli archivi storici locali, stagionato per trenta giorni in madie di legno e poi in contenitori di legno, “bronzi”, a forma tronco-conica. Questo formaggio è stato uno dei protagonisti dei ravioli in brodo, preceduti dalla gallina sfilacciata su crostoni di pane, che è un altro prodotto fatto in casa e di cui, al piano superiore, si assaggiano una serie di differenti e godibilissime varianti. Abbiamo gustato anche fini-fini al pomodoro bruciato, costine di maiale glassate alle erbe ciociare e una pregevole selezione di pasticceria, tra cui una zuppa inglese rovesciata e un cannolo siciliano. Molti piatti sono stati serviti da Salvatore Tassa, che ne ha spiegato le caratteristiche, consigliando pure una bottiglia di Passerina del frusinate, Colle Bianco, di Casale della Ioria, un vino piacevole e fresco, pregevole come il Cesanese del Piglio Campo Novo, entrambi di Casale della Ioria, un’azienda sostenibile con viticoltura biologica certificata, fra Anagni ed Acuto.
Salvatore è un esempio di un corretto rapporto con la tradizione: un lascito da usare, da interpretare, da ricreare con le molteplici e nuove acquisizioni che i nostri tempi ci offrono. Una cucina che valorizza il proprio territorio, stimolandone le potenzialità inespresse, avvicinandolo e facendolo interagire da comprimario con altre storie ed altre realtà, della più diversa provenienza e natura.
Tutto questo si capisce meglio davanti ad un piatto di lepre al ginepro con rapa marinata o di pappardelle allo zafferano, semmai con un sottofondo di musiche di John Coltrane, di fronte alle colline della verde Ciociaria, ad Acuto, in Via Prenestina 23.
Enrico Ferri, professore di Filosofia del Diritto, all’Unicusano