13 May, 2025 - 16:47

Referendum sul Jobs Act, chi disobbedisce a Elly Schlein? I "ribelli" escono allo scoperto

Referendum sul Jobs Act, chi disobbedisce a Elly Schlein? I "ribelli" escono allo scoperto

I riformisti del PD contro la segretaria: ai referendum non voteremo contro il Jobs Act.
Alla fine lo strappo c'è stato. Quel 'sussulto' più volte evocato da Matteo Renzi è arrivato oggi – martedì 13 maggio 2025 - con una lettera pubblicata dal quotidiano “La Repubblica” e firmata da numerosi esponenti di spicco della segreteria e della direzione del partito di Elly Schlein.

Dopo settimane di malumori, reticenze e scontri interni, la frattura tra l’area riformista del PD e la segretaria è esplosa nel dibattito pubblico. Non è stata una sorpresa per nessuno, dal momento che nelle ultime settimane i segnali che il malumore avrebbe, prima o poi, tracimato erano evidenti.

Il motivo del contendere è la decisione di Schlein di schierare il partito a favore dei cinque sì ai referendum abrogativi del Jobs Act, ignorando le richieste di lasciare libertà di coscienza. Schlein ha preferito prendere una posizione netta, schierando il PD per i cinque sì, anche a costo di scontentare mezzo partito.

Non è stata perdonata alla segretaria la richiesta implicita di rinnegare una stagione politica – quella del Governo Renzi – che molti attuali parlamentari PD hanno sostenuto e contribuito a costruire.
Non a caso la lettera è firmata proprio dai leader di quella corrente riformista più vicini al senatore di Italia Viva

Ma chi sono i deputati e i senatori che hanno deciso di mettere in piazza gli affari interni del PD in un attacco diretto alla segretaria?

Chi si è ribellato a Elly Schlein? I riformisti sfidano la segretaria

La 'fronda ribelle' del Partito Democratico ha nomi e cognomi: Giorgio Gori, Lorenzo Guerini, Marianna Madia, Pina Picierno, Lia Quartapelle e Filippo Sensi.

Sono questi i deputati e gli eurodeputati che si sono ribellati a Elly Schlein, rifiutandosi di votare a favore dell'abrogazione del Jobs Act. 

Era a loro che, in questi giorni il leader di Italia Viva, Matteo Renzi si riferiva quando chiedeva un 'sussulto di coraggio' per non abiurare alle idee del passato come, invece, gli starebbe chiedendo di fare la segretaria PD. Di non temere di difendere le proprie scelte per timore di non essere ricandidati alle prossime elezioni.

Oggi, questo sussulto, sembra essere arrivato. I sei esponenti democratici hanno detto pubblicamente che ai Referendum in programma l'8 e il 9 giugno, non seguiranno la linea ufficiale del partito: si asterranno dai quesiti sul Jobs Act, contratti a termine e licenziamenti nelle piccole imprese, e voteranno sì solo ai referendum su cittadinanza e sicurezza sul lavoro. Non ritireranno le schede (quindi non voteranno) per gli altri tre quesiti sul Jobs Act, i contratti a termine e i licenziamenti nelle piccole imprese.  Non voteranno 'no', ma si asterranno.

Referendum sul Jobs Act, cosa succede nel PD?

Nella loro lettera viene spiegato anche motivo di questa scelta, che non è solo legata al rifiuto di rinnegare una stagione politica, ma anche a motivi di merito dal momento che la vittoria dei 'sì' porterebbe - spiegano - a un peggioramento delle condizioni di lavoro per milioni di lavoratori.

“Per restituire dignità al lavoro servirebbero le politiche attive previste dal Jobs act e non realizzate. Servirebbe, come chiede il PD, la legge sul salario minimo negata dalla destra. Ciò che non serve invece è agitare un simulacro o fuori tempo con un dibattito che distrarrà l’attenzione dai veri problemi".

Si legge nella missiva inviata a Repubblica.

La riforma del lavoro fu varata nel 2014 dal Governo Renzi e votata a larga maggioranza dagli esponenti del PD di allora, molti dei quali ancora oggi siedono tra i democratici.

Quando si votò il Jobs Act, Lorenzo Guerini era deputato e vicesegretario del PD insieme a Deborah Serracchiani e si schierò in prima linea contro i dissidenti PD che si opponevano alla riforma. Nel 2014, Marianna Madia faceva parte della squadra dei ministri di Matteo Renzi e anche lei fu tra le più convinte sostenitrici del Jobs Act. Lo stesso vale per gli eurodeputati Pina Picierno e Giorgio Gori e per i parlamentari Lia Quartapelle e Filippo Sensi.

Ecco perché la decisione della segretaria Elly Schlein sul Jobs Act (che lei non ha mai sostenuto) sta creando una divisione tanto profonda all'interno del partito.

Resa dei conti nel PD, dopo i referendum il congresso

A questo punto una resa dei conti all'interno del Partito Democratico appare inevitabile e potrebbe arrivare subito dopo i referendum dell'8 e 9 giugno. Sotto quale forma bisognerà capirlo nelle prossime settimane, ma il confronto interno tra la segretaria Elly Schlein e alcuni pezzi del partito è ormai non più rinviabile.

La posizione della segretaria sui quesiti sul lavoro e sul Jobs Act ha acuito ulteriormente le tensioni mai sopite, come ad esempio la recente spaccatura sul ReArm Eu, o per il posizionamento del partito sulla guerra in Ucraina. 

L'impressione è che il referendum sul Jobs Act sia diventato una sorta di termometro della situazione all'interno del partito, facendo saltare tutte le coperture. Da questo momento si dovrà giocare a carte scoperte: la conta tra fedelissimi di Elly Schlein e oppositori è aperta e le prossime settimane saranno decisive per il futuro del PD e del centrosinistra italiano.

Questa frattura segna un punto di svolta. Dopo il referendum dell’8 e 9 giugno, un confronto interno sarà inevitabile: la leadership di Elly Schlein e l’identità stessa del Partito Democratico potrebbero essere rimesse in discussione in vista della lunga corsa verso le elezioni politiche del 2027.

Referendum sul Jobs Act, cosa sta succedendo nel PD in sintesi: 

  1. Scontro sul Jobs Act: La segretaria Elly Schlein ha deciso di schierare il PD a favore dei referendum abrogativi del Jobs Act, provocando la rottura con l’area riformista del partito, che si è opposta pubblicamente.
  2. Lettera dei riformisti: Sei esponenti del PD (Gori, Guerini, Madia, Picierno, Quartapelle, Sensi) hanno firmato una lettera su Repubblica dichiarando che non voteranno “sì” ai quesiti referendari che vogliono cancellare il Jobs Act.
  3. Scelta motivata: I firmatari criticano la linea del partito non solo per ragioni storiche, ma anche di merito, ritenendo che l’abolizione del Jobs Act peggiorerebbe le condizioni dei lavoratori e distrarrebbe dai problemi reali, come il salario minimo.
  4. Astenuti, non contrari: I sei parlamentari voteranno solo per due quesiti (cittadinanza e sicurezza sul lavoro), astenendosi dagli altri tre sul Jobs Act e contratti a termine, segnando un’aperta disobbedienza alla linea ufficiale.
  5. Verso una resa dei conti interna: Il referendum dell’8-9 giugno è visto come un punto di svolta: dopo di esso, si attende un congresso o confronto interno decisivo per chiarire la leadership e la direzione politica del PD in vista delle elezioni del 2027.

 

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Maria Rita Esposito
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