C’è una frase nella lettera di Marina Berlusconi al Giornale che da sola basterebbe a fotografare lo stato comatoso della giustizia italiana: “Una parte della magistratura si considera un contropotere”.
Parole nette, finalmente senza ipocrisie, che fotografano con chiarezza la realtà di un sistema ormai malato, dove i giudici da garanti delle leggi si sono trasformati in protagonisti politici, arbitri del bene e del male, censori dell’altrui libertà.
Il caso di Marcello Dell’Utri, chiuso definitivamente dalla Corte di Cassazione con l’assoluzione dalle accuse di “pericolosità mafiosa”, ha scoperchiato un vaso di Pandora che molti preferivano restasse chiuso.
Per Marina Berlusconi quella sentenza è prima di tutto un atto di verità, perché certifica che non ci sono mai stati legami tra Fininvest, Forza Italia e Cosa Nostra. Eppure – osserva con amarezza – la stampa, anziché riconoscere il valore di quei giudici che hanno messo fine a decenni di sospetti, ha preferito sminuire il verdetto, ridurlo a un “nuovo scontro”.
È l’ennesima prova che per una certa cultura giustizialista la verità conta solo quando va nella direzione giusta, quella del pregiudizio.
Marina colpisce al cuore del problema quando parla della “luna nera” della magistratura, quella zona grigia dove una minoranza di toghe si arroga il diritto di diventare un contropotere ideologico, incurante dei limiti costituzionali.
È qui che si annida il paradosso tutto italiano: un Paese democratico che si vanta della sua civiltà giuridica, ma che da trent’anni vive sotto il ricatto dell’azione penale spettacolarizzata, delle indagini preventive che distruggono reputazioni, dei processi mediatici che arrivano prima delle sentenze.
Non è un caso che la parola “giustizialismo” sia diventata parte del nostro lessico quotidiano. È un virus antico, alimentato negli anni da un giornalismo che scambia le prime pagine dei tribunali per tribune morali e da una parte della politica che, incapace di conquistare consenso nelle urne, cerca rivincite nelle aule giudiziarie.
Ed è proprio contro questa degenerazione che le parole di Marina Berlusconi suonano oggi come un atto di ribellione civile.
Come ricorda la presidente di Fininvest, il rischio più grave non è solo per chi, come il padre Silvio, ha vissuto sulla propria pelle decenni di processi infiniti e campagne diffamatorie.
Il problema riguarda tutti: ogni cittadino italiano sa di vivere in un Paese dove basta un avviso di garanzia per essere marchiato a vita.
La presunzione d’innocenza è diventata una formalità, sostituita da un clima di sospetto generalizzato in cui è l’accusato a dover dimostrare la propria innocenza, non lo Stato la sua colpevolezza.
Un sistema così non tutela la verità, ma la distrugge. Trasforma la giustizia in uno strumento di potere, i magistrati in sacerdoti laici e l’opinione pubblica in una folla sempre pronta al linciaggio morale.
È il trionfo della gogna, come lo definisce Marina: la condanna senza processo, il processo senza garanzie, la garanzia senza più valore. Ed è in questo clima che anche la libertà di stampa rischia di piegarsi, schierandosi troppo spesso dalla parte dell’accusa invece che dalla parte della realtà.
Le parole di Marina Berlusconi dovrebbero aprire un dibattito serio, non l’ennesima polemica. Perché ha ragione: la giustizia italiana ha due facce.
Da un lato c’è quella limpida, dei magistrati che ogni giorno lavorano con rigore e discrezione. Ma dall’altro c’è una faccia oscura, politicizzata, autoreferenziale, che confonde l’indipendenza con l’impunità. È quella faccia che deve preoccupare, perché mina le fondamenta dello Stato di diritto.
Riformare la giustizia non significa attaccarla, ma restituirle equilibrio. Significa rompere il meccanismo del doppio potere, eliminare il protagonismo mediatico delle procure, restituire centralità al Parlamento e alla volontà popolare. Significa impedire che le toghe diventino fazioni e che l’accusa si trasformi in ideologia.
Marina Berlusconi, in fondo, non chiede privilegi né vendette. Chiede semplicemente normalità: un Paese dove le sentenze non si pieghino al vento della politica, dove i giudici rispettino la politica ma non la sostituiscano, dove la verità non sia un lusso per pochi ma un diritto per tutti.