La Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito che non esiste alcun legame tra Silvio Berlusconi, Marcello Dell'Utri e Cosa nostra, definendo queste ipotesi "soltanto un teorema illogico e non dimostrato".
Con la sua sentenza, la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato dalla procura generale di Palermo, che chiedeva l'applicazione della sorveglianza speciale e la confisca dei beni dell'ex senatore di Forza Italia e dei suoi familiari.
L'intervento del presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Cesare Parodi, scuote il dibattito sulla giustizia italiana. Anche la massima carica delle toghe riconosce che “trent’anni per la vicenda giudiziaria di Silvio Berlusconi non è da Paese civile”.
È una ammissione che arriva dopo decenni di polemiche, riforme mancate e un sistema spesso incapace di garantire tempi e modalità degne di una democrazia matura. Questo articolo analizza come la persecuzione giudiziaria abbia profondamente segnato sia la vita privata che quella politica di Berlusconi, evidenziando le contraddizioni di un sistema che troppo spesso si è rivelato arma impropria per fini politici.
Le parole di Parodi sono molto più di una constatazione tecnica: rappresentano la presa d’atto definitiva del fallimento di una intera classe dirigente giudiziaria nel garantire i diritti fondamentali che, nel caso Berlusconi, sono stati ripetutamente calpestati.
Quando la burocrazia delle corti si trasforma, per venti o trent’anni, in una lente d’ingrandimento sulle vite degli imputati, non è solo la libertà personale a essere minacciata: è la stessa credibilità delle istituzioni democratiche, costrette a giustificare processi interminabili e sentenze spesso politicamente indirizzate.
Il caso Berlusconi è emblematico: una serie infinita di procedimenti, appelli e indagini hanno per decenni scandito la sua vita, alimentando un senso di persecuzione e delegittimazione che ha travalicato i confini del diritto per entrare tecnicamente nel terreno della lotta politica.
Sull’onda delle dichiarazioni di Marina Berlusconi, che parla apertamente di “calunnie e false accuse” e di una vita “avvelenata” dalla giustizia, emerge quello che i garantisti hanno sempre denunciato: la giustizia, in Italia, rischia di trasformarsi in uno strumento di demolizione morale e pubblica dei personaggi scomodi o divisivi.
Licia Ronzulli sottolinea quanto sia paradossale che oggi si riconosca come “indegno di un paese civile” ciò che per anni è stato derubricato a fisiologia della giustizia italiana, quasi fosse la normalità, la routine accettabile e inevitabile.
Quell’accanimento non ha mai trovato reale opposizione né nei vertici giuridici né tra i legislatori, tanto che a ogni tentativo di riformare il sistema con la separazione delle carriere o la responsabilità civile dei magistrati si sono sempre frapposti interessi corporativi e resistenze ideologiche.
Il punto nodale resta la funzione della magistratura e la sua indipendenza dal potere politico e mediatico. La difesa a oltranza di certi privilegi, come denuncia il ministro Crosetto, impedisce da sempre un bilancio serio degli errori, delle forzature e degli abusi.
Quando la magistratura si chiude “a riccio nell’ostinata difesa del principio che qualcuno sia più uguale degli altri”, non si tutela la democrazia, ma si altera il delicato equilibrio tra i poteri dello Stato. Il processo a Berlusconi – con tempi, modalità e esiti spesso discutibili – non è solo uno scandalo individuale, ma soprattutto un sintomo di una malattia sistemica che colpisce chiunque si trovi nel mirino della giurisprudenza politicizzata.
La riforma della giustizia, ora in discussione al Senato e oggetto di una campagna referendaria molto sentita, potrebbe essere l’unico antidoto reale a una stagione di veleni e sospetti. Il ministro Casellati richiama all’urgenza di una “giustizia chiara, efficace e trasparente”, ecco il punto: servono regole nette, carriere separate e responsabilità certe per magistrati troppo spesso incapaci di distinguere il diritto dalla politica.