Nel 1982 lo scrittore Stephen King, a otto anni di distanza dal suo primo libro Carrie, ha pubblicato il romanzo futurista The Running Man, firmandolo con lo pseudonimo di Richard Bachman. Nel 1984 è stato poi tradotto e stampato in Italia all’interno della rinomata collana di fantascienza Urano, precisamente nel numero 962.
Al centro della narrazione vi è Ben Richards, il protagonista, un uomo che vive in condizioni di precarietà economica, sposato con Sheila, la quale è costretta a prostituirsi per garantire il necessario per campare a entrambi. Hanno una figlia piccola di nome Cathy, affetta da una grave forma di polmonite, che richiede delle cure costose che, per chi come loro non può permettersi un’assicurazione sanitaria, non sono accessibili.
La storia è ambientata nel 2025, a Co-op City, un quartiere di New York appartenente alla contea del Bronx, e la maggior parte della popolazione americana si trova in uno stato di semi-povertà. Chiunque è obbligato per legge a possedere un televisore nella propria abitazione, oggetto che ormai influenza la quotidianità di tutti attraverso la trasmissione di programmi TV, capaci di manipolare e dominare la mente e i comportamenti umani. La Games Federation è la casa di produzione più in voga, responsabile di ideare e finanziare buona parte delle gare violente mandate in onda in televisione. Quelle competizioni, che coinvolgono concorrenti reali, sono così feroci che spesso costano la vita ai partecipanti. Richards, disperato e bisognoso di danaro per i medicinali della figlia, si iscriverà a una di quelle pericolose sfide e dovrà tentare di sopravvivere a ogni costo.
Nel 1987 il regista Paul Michael Glaser, con la sceneggiatura di Steven E. de Souza, ha presentato il suo adattamento cinematografico, liberamente ispirato all’opera letteraria di King, con Arnold Schwarzenegger nel ruolo di Ben Richards, che in un primo momento ha ricevuto un moderato successo, ma nel corso degli anni a seguire è poi divenuto un vero cult di fantascienza.
Veniamo adesso a Edgar Wright, il regista britannico di Ultima notte a Soho (2021), con la splendida e poliedrica attrice statunitense Anya Taylor-Joy. Wright, già nel 2017, aveva manifestato la sua intenzione di girare un nuovo adattamento di The Running Man, dichiarando che avrebbe voluto restare più fedele agli scritti di Stephen King di quanto non fu fatto con L’implacabile. Co-scrivendo la nuova sceneggiatura insieme a Michael Bacall, Wright ha poi iniziato le riprese del film, omonimo del romanzo, a novembre 2024, nel Regno Unito. All’interno dello sviluppo narrativo sono stati inseriti degli elementi tecnologici attuali, ad esempio l’intelligenza artificiale e il deepfake, che per forza di cose King negli anni ’80 non avrebbe potuto nemmeno immaginare. The Running Man è stato presentato in anteprima, il 5 novembre 2025, all’Odeon Leicester Square di Londra e distribuito nelle sale italiane, in contemporanea con quelle statunitensi, a partire dal 13 novembre 2025. Ironia della sorte, nel medesimo anno in cui è ambientato il racconto originale.
Immergendosi nelle pagine firmate dallo strepitoso scrittore del Maine, è curioso leggere come King immaginava sarebbero stati i giorni nostri e di come la civiltà umana si sarebbe (in)evoluta. E se è pur vero che la televisione non è diventata il mostro spaventoso che lui aveva ipotizzato nella sua storia, in tutta onestà non possiamo affermare che come società siamo tanto distanti da quella fantasia raccapricciante. Certo, nessuno a quei tempi avrebbe potuto neanche sognare la nascita dei social network e delle piattaforme virtuali che stanno tirando fuori il peggio da ciascuno di noi. Ma se la televisione finora non si è mai spinta così oltre (non facendoci però mancare dei picchi altissimi di pessima spettacolarizzazione del dolore, o la messa in scena del più basso sudiciume morale, o livelli imbarazzanti di grottesca viltà e becera ignoranza), non possiamo dire altrettanto di ciò che viene pubblicato su internet.
Atti violenti di bullismo ripresi e dati in pasto all’occhio avido, meschino e sadico dello spettatore, stupri di gruppo registrati in video, successivamente condivisi tramite le app di messaggistica, sfide tra i giovanissimi a commettere atti autolesionistici o addirittura a suicidarsi. Incredibile, ma la realtà ha davvero superato l’immaginazione inarrestabile del più grande genio dell’orrore. È bizzarro e sconcertante rendersi conto che man mano che aumentano le capacità virtuali della scienza, con macchine in grado di mimare sempre più i comportamenti umani, simultaneamente la coscienza collettiva e la capacità di empatia sembrano assopirsi senza rimedio.
Tornando a The Running Man, il lungometraggio di Edgar Wright, l’ho trovato senza dubbio e senza alcuna esitazione misero. Ma non posso dire che non me lo aspettassi. Già dai primi istanti l’ho detestato, trovandolo ridondante di retorica da strapazzo. Eccessivo, esagitato, grottesco, patetico e a tratti esageratamente stucchevole. Metteteci anche il fatto che non ho mai compreso tutto questo clamore che da un po’ ruota intorno a Glen Powell, che qui veste i panni del protagonista, attore per me super sopravvalutato. Il tentativo azzardato di volersi lanciare in una satira giudicante nei confronti della parte più spietata del mondo dello spettacolo e della società americana, secondo il mio parere personale, è costato a Wright uno scivolone non da poco, che lo ha anche fatto allontanare di parecchio dal suo consueto stile e gusto registico. Peccato, perché quattro anni fa ho amato il suo Ultima notte a Soho. Con la speranza che Wright possa rifarsi alla prossima, abbandonando il bisogno di fare moralismo spicciolo, per The Running Man 2 stelle su 5.
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