Presentato quest’anno al Sundance, il dramma poliziesco Judas and the Black Messiah a giudicare dalle 6 candidature, tra cui miglior film e miglior sceneggiatura, ha senz’altro ottime chance di primeggiare agli Oscar 2021. L’estetica, i ripetuti piani sequenza, la tematica di forte impegno civile, il linguaggio cauto che adotta il punto di vista del traditore onde evitare pericolose agiografie, il film di Shake King, cineasta di Brooklyn alla sua seconda regia, ha tutte le carte in regola e come unico rivale Il processo ai Chicago 7 di Sorkin, allineato sullo stesso filone narrativo ma in formato legal thriller.
Mentre l’Hampton di Sorkin, anche lui coinvolto nelle vicende giudiziarie raccontate dal film Netflix, ha un ruolo nella storia tutto sommato marginale, King lo mette al centro, accanto al contraltare Bill O’Neil. Lakeith Stanfield e Daniel Kaluuya sono l’uno un Giuda incerto e dubbioso, interiormente sconvolto da un dualismo doloroso quanto avvincente, l’altro il messia, l’uomo che raccolse l’eredità del dottor King e di Malcolm X, grande fautore della lotta armata e dalla visione politica e ideologica di stampo fortemente marxista. Tra l’altro, i due agli Oscar corrono nella stessa categoria, candidati come migliori attori non protagonisti. Sebbene, forse, Kaluuya abbia una marcia in più, forte già del Golden Globe.
C'è di fatto l'ambivalenza al cuore del film, opera che mette in luce alcune fratture all’interno della comunità afroamericana poco note. Una delle tensioni più interessanti indagate da King è quella che c’è tra l'Hampton sociale, impegnato a distribuire colazioni ai bambini, e quello violento e rivoluzionario che scrive discorsi infuocati, intrisi di quel progressismo violento che lo portò nel mirino dell’FBI.
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