L’Italia continua ad essere una delle principali basi di smistamento dei narcotrafficanti e lo dimostrano le tantissime inchieste sul traffico di stupefacenti e sulle organizzazioni mafiose che controllano le rotte e il business. Il programma Psiche Criminale – Organizzazione criminale, in onda sul canale 122 Fatti di Nera, ha approfondito la tematica partendo da uno degli ultimi blitz delle forze dell’ordine.
All’alba del 6 ottobre scorso, in tutta Italia è scattata l’operazione “Termine”, un vero e proprio maxiblitz contro il narcotraffico internazionale. Oltre 400 carabinieri in azione, nove province coinvolte da Cagliari a Roma, da Pisa a Vicenza. Il bilancio è pesantissimo: 71 misure cautelari, 35 chilogrammi di cocaina sequestrati, e ancora pistole, kalashnikov e migliaia di euro in contanti.
I destinatari dei provvedimenti richiesti dalla Direzione distrettuale Antimafia di Cagliari sono sia italiani che stranieri, molti già noti alle forze dell’ordine. Le indagini, durate oltre due anni, hanno svelato due organizzazioni criminali radicate in Sardegna e strettamente legate con ambienti della criminalità albanese con basi in Toscana e in Veneto.
Una di carattere strutturato e verticistico curava il reperimento e la distribuzione di cocaina ed eroina, l’altra – definita strumentale – formata da professionisti, trasportava i carichi nascosti nei doppifondi di tir, spesso diretti anche all’estero. Un’inchiesta imponente che mostra ancora una volta come il narcotraffico non conosca confini e soprattutto che l’Italia resta uno snodo cruciale nelle rotte della cocaina verso tutta l’Europa.
“La droga sembra essere diventata in Italia lo sport nazionale – ha detto il professor Carlo Taormina, ordinario di Procedura Penale all’Università Tor Vergata – troppe persone ne fanno uso. E l’Italia è sotto un imponente attacco continuo da parte dei cartelli, è la piattaforma al centro dell’interesse delle organizzazioni criminali.
Purtroppo, le inchieste importanti non concludono quasi nulla, perché i grandi responsabili delle organizzazioni restano irreperibili o vengono uccisi nelle guerre tra bande. Solo il 5-10% del traffico di droga viene scoperto, è un fenomeno molto diffuso e, purtroppo, è frequente che vengano implicati appartenenti alle forze dell’ordine, perché esiste uno stretto collegamento tra investigatori e organizzazioni.
L’uso delle sostanze stupefacenti ormai appartiene alla normalità e alla fine è talmente ampliato il raggio di operatività che ormai abbiamo perso la guerra. Si parla di un business da miliardi di euro, ormai comprano tutto. Purtroppo, i dati dicono che la normalità è la non repressione e che queste operazioni rappresentano solo le punte degli iceberg di migliaia di processi che non si riescono a fare, perché nemmeno si fanno le indagini. Anche il contrasto alla criminalità organizzata rappresenta pochissimi casi, il resto rimane impunito.
Le organizzazioni mafiose ormai dedicano il 90% delle loro attività al traffico di stupefacenti, in una simbiosi tra lo Stato che non persegue e la mafia che ha preso il suo posto e fa i soldi anche per conto dello Stato. La mafia non uccide più, perché lo Stato ha vinto la sua guerra contro le mafie solo sui morti in strada, ma ha ceduto sulla droga. Questo può essere considerato un patto, una trattativa Stato-mafia”.
Secondo Taormina “ciò accade anche negli Stati Uniti, dove la mafia americana è stata tutta legalizzata: sono tutti diventati imprenditori, i figli di quei mafiosi continuano a fare gli imprenditori e i proventi di mafia sono diventati attività industriali. Il contrasto è ridotto al 10% rispetto a un 90%. Inoltre, in tutte le grandi organizzazioni mafiose, al vertice si trova sempre un capo che ha i contatti con i vertici statali. Così si cede sull’ordine pubblico, attraverso delle concessioni”.
Quando si parla di traffico di droga, secondo l’avvocato penalista Riccardo Brigazzi, “ci confrontiamo con un settore che è forse tra i più grandi dell’imprenditoria mondiale. Se fosse legalizzato, il traffico di droga forse contribuirebbe al 10% del pil mondiale. Il grande paradosso è che gli esseri umani non riescono a staccarsi dal consumo di sostanze che portano alla morte, come accade per le sigarette e l’alcol. E questo mondo è costretto ad espandersi.
Nel frattempo, la mafia si è industrializzata, perché i margini di profitto sono elevatissimi, soprattutto sul narcotraffico. L’esperienza giapponese è particolare. Il Giappone ha ridotto la Yakuza attraverso un patto. È un fenomeno particolare: in pratica lo Stato ha regolarizzato la posizione delle famiglie cosiddette mafiose, andando a contenerle, lasciando loro la gestione di alcuni giri, senza che eccedano in questioni di ordine pubblico e a ledere la comunità.
Love hotel, case da gioco, attività che normalmente ricadono sotto l’egida delle famiglie mafiose, in alcuni quartieri sono legalizzate: quelle famiglie ne traggono profitti e garantiscono l’ordine pubblico. Lo Stato pensa che siano imprenditori come tutti gli altri e li tratta come tali: anche la prostituzione è consentita, così è stato depotenziato il fenomeno mafioso e condotto a qualcosa di accettabile. È successo in un particolare contesto, non è replicabile ovunque, ma il Giappone dimostra che per la gestione del fenomeno mafioso in alcuni ambiti può essere la soluzione”.
“È talmente grosso il giro d’affari – ha spiegato il professor Francesco Pira, docente di Sociologia all’Università di Messina – che c’è una forma di impotenza perché è impossibile fermare tutto. L’unica strada è tentare di partire dal basso. Se i ragazzi non vanno a scuola, soprattutto al Sud Italia è una sconfitta perché vengono subito reclutati dalle organizzazioni criminali. E quello non è solo il fallimento delle famiglie: ci sono interi quartieri controllati da queste organizzazioni e lo spaccio di droga diventa il business dei business. È un problema sociale, ma per i minori spesso il carcere minorile è solo la porta per una vita da criminali”.
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